Anno 2013: la “partita” strategica per la ricolonizzazione del Vicino Oriente ha inizio - parte III

 

3. Siria. Una guerra per procura finalizzata al controllo del Vicino Oriente e dell'Eurasia. I piani strategici dell'imperialismo e la reale situazione sul terreno nel quadro di una vasta operazione di infowar.

 

Stante le informazioni raccolte dai più autorevoli esperti di politica internazionale non omologati alla folta schiera di giornalisti embedded alle ragioni delle potenze neo-colonizzatrici, per quel che concerneva la questione siriana, «la dolorosa verità alla quale il segretario di Stato John Kerry s'era finalmente rassegnato era che tutte le soluzioni in Siria costituivano una sconfitta per gli Stati Uniti, per l'Occidente colonizzatore, per le petromonarchie e per la Turchia. Così, Washington e i suoi ausiliari tentavano di aggirare questa soluzione annunciando la loro intenzione di armare i gruppi terroristici e minacciando di allargare il campo di battaglia prima di sedersi al tavolo dei negoziati in un vertice russo-americano di cui la data era prevista a breve termine [probabilmente entro il giugno 2013, ndr], secondo fonti diplomatiche»[1]. La sostanziale «doppiezza» della diplomazia statunitense, da un lato impegnata a sostenere e ad armare i cosiddetti «ribelli» e dall'altro consapevole dell'imprescindibile ruolo di interlocutore del «regime siriano», veniva esaminata con puntualità da Ghaleb Kandil, il quale scriveva:

 

A margine della sua ultima tournée diplomatica nel Vicino Oriente, John Kerry ha tergiversato sui termini dell'accordo concluso con la Russia a Ginevra. Ma è stato finalmente costretto a fare una dichiarazione politica che ha l'effetto di uno shock per i suoi alleati ed ausiliari, riconoscendo che il presidente Bashar al Assad rappresentava un'inaggirabile parte negoziale. In questo modo, Washington abbandonava definitivamente e chiaramente la condizione delle dimissioni del presidente [siriano, nda], come preliminare al dialogo nazionale. Malgrado ciò, gli Stati Uniti restano tentati dal piano “dell'ultimo quarto d'ora”, per tentare di modificare i rapporti di forza interni in Siria, in previsione dell'inizio dei negoziati. Si tratta di un gesto disperato per evitare la disfatta politica totale. E' nel novero di questo quadro che si deve interpretare l'addestramento di terroristi siriani da parte di istruttori statunitensi in Giordania, l'invio di 3.000 tonnellate di armi croate acquistate dall'Arabia Saudita e dal Qatar, e lo scenario riguardante un intervento israeliano mirante ad edificare una cintura di sicurezza in Siria, la cui gestione sarà affidata ai terroristi[2].

 

Anche secondo un giornalista italiano non certo noto per le sue simpatie «filo-siriane», come Lorenzo Trombetta, «Obama ha cambiato strategia, o almeno sembra aver abbandonato l’oltranzismo retorico del primo anno e mezzo della “crisi”. La nomina di Kerry in tal senso non è casuale. Il senatore democratico è da anni un forte estimatore del presidente siriano. Tra il 2009 e il 2011, come ricordava alcune settimane fa il Wall Street Journal, Kerry si è recato a Damasco in visita da Assad per ben cinque volte. Nel salone degli ospiti del palazzo presidenziale si era accomodato persino il 16 marzo 2011, all’indomani del corteo di protesta anti-regime che, per convenzione, segna l’inizio della rivolta […]. La nomina di Kerry alla segreteria di Stato rappresenta “una seconda possibilità per Assad”»[3].

La dichiarazione di John Kerry, rilasciata il 13 marzo 2013 «incontrando il suo omologo norvegese»[4] e riguardante il fatto «che gli Usa “vogliono vedere (il presidente Bashar al) Assad e l’opposizione siriana sedersi attorno a un tavolo del dialogo per formare un governo di transizione”»[5], significava nient'altro che la debacle dei piani statunitensi di regime change a Damasco, dopo due anni di esternazioni retoriche «obamiane» e «clintoniane» relative alla necessità di un allontanamento, volontario o meno, dal potere della leadership politica siriana, in particolar modo del presidente Assad.

 

In mezzo ci sono anche diverse e contrastanti dichiarazioni del presidente Barack Obama e della Clinton. Nel maggio 2011, Obama aveva detto che Assad «deve guidare la transizione oppure deve dimettersi». Nel luglio successivo, il presidente Usa si diceva «orripilato per le violenze» e affermava: «Assad va isolato». Ad agosto giungeva il fatidico: «Ora basta, Assad se ne vada», arricchito due mesi dopo da un «se ne vada adesso». Poi, profetico, «il dittatore siriano cadrà» (marzo 2012) e ancora «Assad deve dimettersi» (agosto 2012). Tra queste due ultime esternazioni, uno dei leader più influenti al mondo sentenziava: «Con Assad al potere, una transizione politica in Siria è impossibile». E un mese dopo la Clinton rincarava la dose: «Assad ha perso la legittimità». Per Kerry, scelto da Obama, Assad ha invece la legittimità sufficiente per essere parte di un negoziato in vista della transizione politica. Che, a dispetto di quanto affermato meno di un anno fa dal presidente Usa, adesso è possibile col raìs di Damasco ancora al potere[6].

 

Il politologo neocon Dinel Pipes, a sua volta, teorizzò la necessità, da parte dell'amministrazione Usa, di adoperarsi per realizzare una strategia il più possibile funzionale al prolungamento del conflitto in Siria, con lo scopo dichiarato di logorare in un'estenuante guerra dalla quale nessun vincitore sarebbe dovuto emergere, le fazioni sul campo potenzialmente ostili agli interessi americani ed israeliani nella regione.

 

Gli analisti concordano sul fatto che “l’erosione delle capacità del regime siriano sta subendo un’accelerazione”, ossia che passo dopo passo continua a perdere terreno, rendendo sempre più probabile un’avanzata dei ribelli e una vittoria islamista. Come risposta, riformulo le mie raccomandazioni politiche passando da una posizione di neutralità a qualcosa che m’induce, come nemico di lunga data della dinastia Assad, a esitare prima di scrivere che i governi occidentali dovrebbero appoggiare la dittatura malefica di Bashar al-Assad. Ecco la logica che sta dietro a questo suggerimento riluttante: le forze del male sono meno pericolose per noi quando si fanno guerra a vicenda. E questo 1) le tiene concentrate localmente e 2) impedisce che una di esse ne esca vittoriosa (comportando così un pericolo ancora maggiore). Le potenze occidentali dovrebbero guidare i nemici allo stallo aiutando la parte sconfitta in modo da prolungare il conflitto. Questa politica ha dei precedenti[7].

 

Pipes faceva riferimento al conflitto Iraq-Iran del 1980-1988, che vide gli Stati Uniti protagonisti di una manifesta strategia volta all'indebolimento di entrambi gli Stati coinvolti nell'avventura bellica, finalizzata al reciproco indebolimento di due attori geopolitici ideologicamente e concretamente non asserviti ai piani occidentali ed israeliani di ridefinizione in chiave neoliberista degli equilibri mediorientali.

 

La guerra Iran-Iraq (1980-1988) creò una situazione simile. Dopo la metà del 1982, quando le forze armate dell’Ayatollah Khomeini passarono all’offensiva contro quelle di Saddam Hussein, i governi occidentali cominciarono ad appoggiare l’Iraq. Sì, è vero, il regime iracheno aveva dato il via alle ostilità ed era più brutale ma quello iraniano era ideologicamente più pericoloso e sull’offensiva. La cosa migliore fu che le ostilità ostacolarono entrambe le parti e impedirono a una di esse di uscire vittoriosa dal conflitto. Nelle parole apocrife di Henry Kissinger, “È un peccato che entrambe non possano perdere”. In questo spirito, ho dunque argomentato che gli Stati Uniti aiutino la parte sconfitta, a prescindere da quale essa possa essere, come affermo in quest’analisi del maggio 1987: “Nel 1980, quando l’Iraq minacciava l’Iran, i nostri interessi erano riposti almeno in parte nell’Iran. L’Iraq è, però, sulla difensiva dall’estate del 1982 e Washington ora è dalla sua parte. (…) Guardando al futuro, se l’Iraq dovesse ancora una volta passare all’offensiva – un cambiamento improbabile ma non impossibile – gli Stati Uniti dovrebbero ripensarci e considerare la possibilità di offrire aiuto all’Iran”. Applicando questa stessa logica alla Siria di oggi si ravvisano delle importanti analogie. Assad ricopre il ruolo di Saddam Hussein – il brutale dittatore baathista che dette inizio alla violenza. Le forze ribelli assomigliano all’Iran – la vittima iniziale che nel corso del tempo è diventata sempre più forte, costituendo un crescente pericolo islamista. I continui combattimenti mettono a repentaglio i Paesi vicini. Entrambe le parti commettono crimini di guerra e costituiscono un pericolo per gli interessi occidentali. Sì, è vero, la sopravvivenza di Assad giova a Teheran, il regime più pericoloso della regione. Ma una vittoria dei ribelli, vi rammento, incoraggerebbe enormemente il governo turco sempre più canaglia, rafforzando i jihadisti e sostituendo Assad con gli islamisti trionfanti e infiammati. I continui combattimenti danneggiano meno gli interessi occidentali rispetto alla loro presa del potere. Esistono prospettive peggiori degli islamisti sciiti e sunniti che si azzuffano, dei jihadisti di Hamas che uccidono i jihadisti di Hezbollah e viceversa. Meglio che non vinca nessuna delle parti[8].

 

A tal punto, era doveroso, anche da parte dei sostenitori, a vario titolo, della causa occidentale in Siria, riscontrare che «aveva ragione il numero due di Hezbollah, lo shaykh Naim Qasim, quando lo scorso 12 marzo affermava che sulla questione siriana gli Stati Uniti “non sanno più come muoversi. Da una parte vogliono rovesciare il regime, dall’altra temono di perdere il controllo dopo la sua caduta”. Il disorientamento è riscontrabile»[9] ancor di più nell'ambito delle divergenze politiche che andavano ad interessare l'amministrazione ed il Congresso Usa riguardo alla strategia da adottare in merito alla “questione siriana”.

 

Dopo che Barack Obama ha rimosso gli avversari del piano di pace Lavrov-Kerry in Siria, è [infatti, nda] il Congresso che si dichiara contro. Tre iniziative bipartisan sono state prese. 1) Eliot Engel e Mike Rogers hanno presentato un progetto di risoluzione dal titolo “Legge per la Siria libera” (Free Syria Act of 2013). Eliot Engel è un portavoce degli interessi israeliani al Senato. Ha giocato un ruolo fondamentale nel corso degli ultimi dieci anni nella preparazione della guerra in Siria, ed è preoccupato per la piega presa dagli eventi. La sua proposta riprende brani della “Legge sulla contabilità della Siria” (Syria Accountability Act of 2013) che fece adottare dopo la caduta di Baghdad, designando Damasco prossimo obiettivo. Oltre all'assistenza umanitaria, si prevede di armare e supportare gruppi selezionati in base alla loro compatibilità ideologica, e di organizzare una zona autonoma al confine con la Turchia, vietandone il sorvolo, come è stato fatto per un decennio nel Kurdistan iracheno, in preparazione dell'invasione dell'Iraq. 2) Carl Levin e John McCain hanno scritto una lettera al presidente Obama, a nome della Commissione Forze Armate. Entrami i senatori parlano a nome di alti ufficiali che si oppongono ad una nuova azione militare degli Stati Uniti nel Vicino Oriente. Adottano il progetto israeliano di una no fly zone, ma suggeriscono che sia attuato utilizzando i missili Patriot schierati in Turchia dalla Nato. 3) Robert Casey e Marco Rubio hanno presentato un progetto di risoluzione dal titolo “Legge di transizione democratica in Siria” (Syrian Democratic Transition Act of 2013). La loro proposta è ispirata dagli interessi economici coalizzati intorno all'ex-vicepresidente Dick Cheney, con cui sono in contatto. Prevede la continuazione dell'attuale azione coperta ed esclude il ricorso all'intervento militare aperto. Si tratta di un piano basato su sanzioni, selezione di futuri dirigenti e sfruttamento delle risorse energetiche della Siria[10].

 

Secondo il giornalista Manlio Dinucci, infatti, «la strategia Usa-Nato punta sui “ribelli” che sono stati aiutati ad impadronirsi dei campi petroliferi [della provincia di Deir Ezzor, nda] con un duplice scopo: privare lo Stato siriano degli introiti delle esportazioni, già fortemente calati per l'effetto dell'embargo Ue; far sì che i maggiori giacimenti passino in futuro, tramite i “ribelli”, sotto il controllo delle grandi compagnie petrolifere occidentali»[11]. Gli Stati Uniti ed i loro alleati avevano tutto l'interesse a sabotare, tramite l'ausilio, sul campo, dei cosiddetti «ribelli», «il ruolo della Siria quale hub di corridoi energetici alternativi a quelli attraverso la Turchia e altri percorsi, controllati dalle compagnie statunitensi ed europee»[12]. Particolarmente pericoloso risultava, «per gli interessi occidentali, l'accordo stipulato nel maggio del 2011 tra Damasco, Baghdad e Teheran: esso prevede la realizzazione di un gasdotto che, attraverso l'Iraq, trasporterà il gas naturale iraniano in Siria e da qui ai mercati esteri. Questi e altri progetti, già finanziati, sono stati bloccati da quelle che l'agenzia statunitense U.S. Energy Information Administration definisce le “incerte condizioni di sicurezza in Siria”»[13]. Occorreva ricordare, a conclusione di questa breve digressione, che la Siria possedeva riserve petrolifere ammontanti a 2,5 miliardi di barili, ovverosia maggiori a quelle di tutti i Paesi vicini eccezion fatta per l'Iraq. «Ciò rende la Siria uno dei maggiori produttori ed esportatori di greggio in Medioriente. Il Paese possiede anche grosse riserve di gas naturale […]. C'è però un problema, segnala l'agenzia statunitense [di cui sopra]: dal 1964 le licenze per l'esplorazione e lo sfruttamento dei giacimenti sono riservate agli enti statali siriani. Ciò procurava allo Stato, fino al 2010, un'entrata annua di oltre 4 miliardi di dollari proveniente dall'esportazione di petrolio, soprattutto in Europa. Le cose però stanno cambiando con la guerra»[14].

Provando a riassumere, «gli Stati Uniti e i loro alleati europei vorrebbero canalizzare l’evoluzione della crisi siriana in uno schema capace di soddisfarli pienamente»[15]. Tale schema si caratterizzerebbe  secondo i seguenti punti:

 

1) [Gli Usa] non desiderano un crollo completo in Siria; 2) Non vogliono che la struttura amministrativa e di sicurezza della Siria si sgretoli completamente; 3) Preferiscono che il presidente Assad e i suoi non siano più al potere in Siria; 4) Gli Statunitensi, traendo insegnamento dal fallimento islamista in Tunisia, in Egitto e in Libia, preferiscono adesso che Assad venga rimpiazzato da un governo nazionale e laico e filo occidentale; 5) Desiderano che il nuovo governo siriano sia un alleato dell’occidente e che si adegui al processo di pace in Medio Oriente, vale a dire alla dominazione israelo-Usa-wahhabita sul Medio oriente e il Maghreb; 6) Non vogliono che la crisi si propaghi nei paesi vicini, come il Libano, la Turchia o l’Iraq. Almeno non in questo momento, perché lo scenario non è ancora conforme ai piani statunitenso-israeliani di rimodellamento di questa regione; 7) Non vogliono che la Siria continui ad essere amica dell’Iran e di Hezbollah libanese[16]

 

Nei fatti, «si tratta di un piano assai differente da quello già immaginato da alcuni paesi della regione, tra cui la Turchia, il Qatar e l’Arabia Saudita. Questi paesi volevano soprattutto impedire ogni soluzione pacifica e democratica della crisi siriana. Volevano, e vogliono ancora, imporre un governo islamista sunnita, che obbedisca loro al minimo cenno, come accade in Tunisia, per esempio. E’ il motivo per il quale questi paesi hanno sostenuto, fin dall’inizio, i gruppi estremisti salafisti sunniti, inviando loro armi, mercenari e danaro. Il Qatar e l’Arabia Saudita volevano, e vogliono sempre, sia pure in concorrenza tra loro, estendere la loro influenza su tutti i paesi della regione del Medio oriente e del Maghreb, senza dimenticare il Sahel. Ma tra Doha e Riyad vi è anche una forte rivalità»[17]. Washington preferirebbe pertanto collaborare, in merito alla “questione siriana”, con la più «conciliante» l'Arabia Saudita, piuttosto che con il Qatar, in quanto quest'ultima monarchia «in Tunisia […] finanzia non solo Ennahdha [ossia la locale sezione della Fratellanza islamica, al governo del Paese dal 2012, nda], ma anche, insieme all’Arabia Saudita, proprio i gruppi salafisti (che hanno la responsabilità dell’attacco all’ambasciata [statunitense a Tunisi]) e alcuni “liberali”, come il grottesco presidente della repubblica. Alla luce di questi rapporti, il governo qatariano avrebbe usato la propria influenza per assumere il controllo delle correnti islamiste estremiste. Nello stesso tempo i leader del Qatar vorrebbero fare intendere agli statunitensi, e soprattutto al presidente Barack Obama, che il Qatar sarebbe in grado di giocare il ruolo di intermediario degli interessi USA in tutta la regione del Medioriente»[18].  Secondo determinate fonti, «alcuni rapporti della Casa Bianca e del Congresso USA mostrano che gli Statunitensi sono preoccupati per i caratteri del ruolo che il Qatar sta giocando nella crisi siriana e nell’insieme della regione del Medio Oriente, soprattutto dopo l’assassinio dell’ambasciatore degli Stati Uniti a Bengasi, in Libia, e l’attacco all’ambasciata USA a Tunisi […]. Gli Stati Uniti vogliono soprattutto che il Qatar non finanzi più i gruppi jihadisti estremisti che si infiltrano in Siria»[19]. Era in questo senso che dovevano essere lette ed interpretate le operazioni di “vetting” intraprese dagli servizi segreti statunitensi per assicurare la distribuzione delle armi provenienti dagli arsenali croati ai gruppi «laici» facenti parte della galassia della sedicente «opposizione siriana», ossia politicamente favorevoli ad una svolta filo-americana della politica siriana, estera ed interna, una volta raggiunto il potere per via militare. Il protagonismo regionale del Qatar ha determinato una sostanziale ridefinizione degli equilibri geopolitici interni al «mondo arabo» ed al Vicino Oriente più in generale. Il piccolo, ma estremamente ricco di disponibilità e risorse finanziarie e multimediali, emirato del Golfo, insieme alla Turchia, intensificò il finanziamento e la fornitura di armi ai «ribelli» in Siria al fine di «favorire un'escalation sul terreno»[20]; le armi procurate dal Qatar erano in particolare destinate, via Turchia, ai gruppi «contigui ai Fratelli musulmani»[21]. L'obiettivo del Qatar era infatti quello di instaurare, in Siria, un regime islamista sunnita, indipendente nel nome, vassallo nei fatti della monarchia feudale di Doha.

 

Il recente vertice della Lega araba, che ha deciso illegalmente di fornire aiuti militari all’opposizione siriana su pressione di Doha, ha dimostrato ancora una volta che c’è un nuovo equilibrio di potere nel mondo arabo, in cui Paesi tradizionalmente forti come Egitto, Algeria e Iraq si sono di nuovo dimostrati impotenti contro il ricco nano Qatar. L’emirato ha usato tutti i mezzi a sua disposizione per ottenere ciò che voleva, compreso il ricatto finanziario. Perfino l’Arabia Saudita ha mostrato meno perseveranza del Qatar[22].

 

Il Qatar, a partire dalla primavera 2011, impegnò così tante risorse finanziarie nella conduzione della guerra segreta ai danni della Siria al punto da sospendere investimenti già programmati in diversi settori della propria economia interna. Secondo Pjotr Lvov, «il Qatar ha già speso così tanti soldi che ha sospeso una serie di progetti di sviluppo interno, e gli investimenti stranieri nel Paese si sono notevolmente contratti. Ad esempio, l’emiro non ha mantenuto le promesse di partecipare a diversi importanti progetti russi che aveva fatto durante la sua visita del novembre 2010 a Mosca»[23]. La profusione di cotanti mezzi, addirittura a discapito dei progetti relativi allo sviluppo economico interno del Paese, era indirizzata alla realizzazione dei piani geostrategici dell'emirato, “potenza” regionale con ambizioni egemoniche in ascesa.

 

L’obiettivo del Qatar è chiaro: cercare di porre fine al regime siriano bloccando un progetto di gasdotto dal Qatar alla Turchia attraverso l’Arabia Saudita, la Giordania e gli Emirati Arabi Uniti, e quindi diretto ai consumatori europei. Avrebbe contribuito a realizzare l’obiettivo strategico, cacciare la Russia dai mercati tradizionali del gas naturale nell’Europa sud-orientale, così come della Turchia. E Doha non opera solo su propria iniziativa, la pressione degli Stati Uniti la supporta[24].

 

Il Qatar, monarchia assoluta assai poco attenta alla questione dei «diritti umani» propagandata dai media e dai politici occidentali quale pretesto di ogni iniziativa militare, o politica, di ispirazione neo-coloniale[25], si configurava de facto come un alleato strategico degli Usa almeno dai tempi della cosiddetta “prima guerra cecena”, allorquando l'emirato del Golfo «era uno dei principali sponsor della guerra in Cecenia, finanziando generosamente mercenari arabi e ribelli ceceni»[26] in funzione anti-russa. Nel 2003, il Qatar fu definitivamente legittimato dagli Usa quale “affidabile e democratico interlocutore e partner internazionale” e «venne tolto dalla lista [degli Stati sponsor del terrorismo] perché permise che il suo territorio fosse utilizzato nella guerra contro l’Iraq»[27]. Dieci anni dopo l'avventura imperialista degli Usa e dei loro alleati e lacchè europei ed arabi in Iraq, «l’emirato [di Doha] non poteva essere considerato uno Stato nel senso classico. In realtà era un grande giacimento di gas naturale dominato dalla statunitense Exxon Mobil e dalla più grande base dell’US Air Force in Medio Oriente, che ha quasi 5000 militari statunitensi, vale a dire quasi la metà delle Forze Armate del Qatar. Quanta autonomia ha in realtà il Qatar? […]. L’emiro e la sua famiglia sono agganciati a Washington»[28]. Tuttavia, «sarebbe l’inizio della fine per il Qatar se il governo legittimo della Siria riuscisse comunque a mantenere il potere. Se l’opposizione armata siriana venisse sconfitta, sarebbe un boomerang su Doha, impreparata alla sconfitta»[29]. E la sopravvivenza, nel tempo, del «regime di Assad», sebbene sottoposto a pressioni militari, politiche,  economiche e mediatiche di ogni genere, era un'opzione tenuta in seria considerazione anche da analisti di politica internazionale certamente non annoverabili tra i sostenitori del nominato «regime». 

 

Molti analisti strategici si aspettano la caduta del regime di Bashar al Assad. Gli eventi della «primavera araba» spingono a ritenere che le rivoluzioni sfocino sempre in nuovi regimi. La Siria, tuttavia, non può essere paragonata ad altri paesi arabi. La ribellione siriana, infatti, non produrrà necessariamente un cambio di regime. Anzi, il presidente al Assad ritiene di aver già vinto il conflitto, specialmente da quando la comunità internazionale ha approvato all’unanimità il piano di Ginevra che, pur senza stipularlo in maniera vincolante, prevede la sua permanenza al vertice della Siria, bilanciata dalla presenza di membri dell’opposizione nei ruoli chiave di un futuro governo di unità nazionale. È molto probabile che al Assad conservi la sua carica almeno fino alle elezioni presidenziali del maggio 2014. Potrebbe persino uscire vincitore da quella tornata elettorale, restando al potere per altri quattro anni, dato che per ora non s’intravvede un avversario capace di batterlo, mentre l’opposizione rischia di frammentarsi[30].

 

In concreto, «nonostante nel piano di pace non sia stato stabilito esplicitamente, nei fatti al Assad dovrebbe rimanere al suo posto. La Russia sa molto bene che il presidente siriano non approverà un piano che preveda la sua uscita di scena […]. È dunque prematuro stabilire che i giorni del regime di Damasco sono contati. Anche se le dinamiche sul terreno volgessero a favore dell’opposizione, ciò non si tradurrebbe in un immediato collasso del regime»[31].

La strategia di guerra coperta volta a destabilizzare la Siria richiedeva, oltre all'impegno militare profuso fornendo armi e denaro alla cosiddetta «opposizione siriana», l'intensificazione della guerra mediatica condotta dalle grandi corporation dell'informazione occidentale contro il «regime di Assad». La Siria doveva infatti essere rappresentata, presso l'opinione pubblica del sedicente «mondo libero», come un Paese il cui tirannico governo reprimeva nel sangue spontanei, popolari e disarmati fermenti di massa a richiesta di «democrazia», «diritti di libertà individuali» e «libero mercato». Secondo la giornalista russa Anastasia Popova, autrice del docu-film The Syrian Diary, «la gente vive ancora con lo stereotipo secondo cui i media occidentali sono i migliori, perché garantiscono la libertà d'espressione e il rispetto dei telespettatori e che “icone” dell'informazione come la BBC o la CNN non possono fornire informazioni non verificate. È difficile per queste persone credere che oggi vengano COSTRUITE delle notizie dagli stessi giornalisti […]. Oggi [i principali mezzi di comunicazione di massa] sono diventati uno strumento che forma le opinioni inventando storie in grado di orientare i telespettatori»[32]. Il giornalista Tony Cartalucci spiega, più nel dettaglio, l'intreccio politico-affaristico che legava gli ideatori della strategia di guerra segreta contro la Siria ed i media mainstream, a cui fu delegato il compito di rappresentare, presso l'opinione pubblica occidentale, la versione dei fatti compatibile alle istanze dei soggetti di cui sopra, relativamente alla “questione siriana”.

 

La BBC, insieme a una miriade di altre agenzie di stampa e ONG della pseudo-informazione, rappresenta gli interessi del mondo finanziario ed è da esso sovvenzionata. Quello degli influenti poteri che comprano i media per controllare le percezioni del pubblico, è un tema ricorrente nella storia dell’informazione cartacea e, oggi, televisiva e informatica. Questi interessi, molti dei quali familiari alle compagnie di Fortune 500, finanziano il think tank che propone sia le politiche nazionali che i punti di discussione quotidiani per i notiziari della sera; questi vengono poi distribuiti ai politici per essere approvati e infine finiscono sulle scrivanie delle reti dell’informazione per essere presentati al pubblico. La cosa peggiore è che in molti di questi media sono rappresentati sia i membri del think tank che ideano le politiche, sia i loro corrispondenti che le dibattono. Apparentemente, ci sono già consistenti conflitti di interesse in gioco. Chiaramente, quindi, se l’obiettivo degli interessi della finanza privata è quello di colpire ed eliminare coloro che si oppongono alla loro egemonia geopolitica ed economica, essi useranno i rappresentanti dell’informazione per diffondere la loro propaganda. La BBC si è resa responsabile di numerosi incidenti ad alto profilo di grandi frodi e mistificazioni, ma è il suo quotidiano, con il suo persistente travisamento, ad avvelenare gradualmente la percezione del pubblico occidentale, rendendolo avverso a nazioni come la Siria e l’Iran[33].

 

La giornalista della CNN Amber Lyon, dal canto suo, nell'aprile 2013 rivelò «che i media statunitensi avevano il compito di diffondere propaganda contro l'Iran e la Siria. L’ex corrispondente […] ha detto che quando lavorava presso la CNN, ricevette l'ordine, da parte dell’amministrazione americana, di diffondere delle notizie false o di non riportare certe informazioni contro l’Iran e la Siria con l'obiettivo di convicere l'opinione pubblica a lanciare un'offensiva militare contro questi due Paesi. Amber Lyon aggiunse inoltre che lo stesso scenario  venne usato dagli americani prima di lanciare la guerra del 2003 contro l'Iraq»[34]. Sul campo, i «ribelli» che controllavano le aree di confine tra Siria e Turchia, richiesero ai giornalisti stranieri operanti nelle cosiddette «zone liberate», di avvalersi di traduttori e guide indicate dagli stessi «ribelli»[35]; questo nel tentativo di evitare la diffusione, all'estero, di notizie riguardanti l'estrema criticità della situazione nelle aree del Nord del Paese sottoposte alle scorribande dei gruppi armati, dove la popolazione manifestava una crescente ripulsa nei confronti dei metodi terroristici e delle imposizioni religiose dei gruppi takfiristi[36].

La guerra mediatica di cui sopra, condotta contro gli Stati ed i movimenti politici e sociali che nel Vicino Oriente si opponevano agli «interessi della finanza occidentale»[37],  aveva quale obiettivo la preparazione del terreno per la realizzazione dei piani statunitensi volti alla creazione del Great Middle East. Non si trattava di teorie, queste, di taglio “complottistico”. Non si ravvisava alcuna cospirazione, o complotto, alla radice degli obiettivi che l'imperialismo si poneva nei confronti degli attori geopolitici non asserviti al Washington consensus; erano infatti gli stessi politologi e maitre a penser dei think tank legati agli interessi politici, economici e militari  statunitensi a divulgare, in decine di scritti e pubblicazioni[38], le linee strategiche per il raggiungimento degli scopi relativi all'imposizione, su scala planetaria, del sistema della globalizzazione neoliberista e dell'american way of life.

 

Per fare qualche esempio, c’è un articolo di Seymour Hersh, pubblicato nel 2007 sul New York Times con il titolo “Il cambio di rotta”; le conclusioni di Hersh erano che gli Stati Uniti stavano cercando di indebolire la Siria per poi intervenire e provocare un cambio di regime in Iran, e questa non era una previsione teorizzata dal giornalista stesso, bensì un obiettivo su cui si fondava la politica dell’amministrazione Bush; una politica, che è già stata attivata a suo tempo […]. Tenendo presente questo, possiamo aspettarci che i meccanismi all’opera, per indebolire, dividere e distruggere la Siria, saranno rivolti contro il Libano e l’Iran, se e quando sarà raggiunta la massa critica necessaria per rovesciare il governo siriano[39].

 

Così, l'autentica motivazione di carattere geostrategico in base alla quale era stata iniziata la guerra segreta contro la Siria, consisteva nel tentativo di spezzare il cosiddetto «Asse della Resistenza» nel Vicino Oriente, sottraendo all'Iran il suo principale alleato nella regione. L'obiettivo finale dell'aggressione per procura condotta contro la Siria era pertanto l'indebolimento, fino al collasso, dell'Iran e, in prospettiva, della Russia.

 

L’Occidente è troppo privo di capitale politico, in casa e all’estero, per lanciare un’offensiva contro l’Iran […]. L’Occidente sta chiaramente cercando di destabilizzare l’Iran, sotto il profilo politico, sociale, morale ed economico, e di distruggerlo militarmente […]. La distruzione della Siria sembra poter essere un espediente utile a questo scopo, anche se Teheran sinora è sempre stata molto attenta e abile a non cadere nel tranello[40].

 

Anche Mosca, infatti, aveva di che temere dall'eventualità concernente l'implosione dello Stato siriano sotto i colpi ad esso inferti dai mercenari salafiti al servizio dell'Occidente e dei suoi alleati arabi del Golfo. Secondo il giornalista investigativo Thierry Meyssan, infatti,

 

Vladimir Putin percepisce questa guerra come un episodio del conflitto che, in virtù della «dottrina Brzezinski», oppone dal 1978 la grande coalizione occidentale-islamista dapprima all’URSS e poi alla Russia. Per il Cremlino, non c’è dubbio alcuno che gli jihadisti, che si sono esercitati nel Vicino Oriente, perseguiranno ben presto la loro opera distruttrice in Cecenia, in Inguscezia e in Daghestan. Da questo punto di vista, la caduta della Siria sarebbe immediatamente seguita dall’incendio del Caucaso russo. Ne deriva che, [per la Russia], il sostenere la Repubblica araba siriana non risulta un’inclinazione esotica, bensì un imperativo di sicurezza nazionale[41].

 

Sul terreno strettamente militare, nonostante l'intensificazione della campagna mediatica occidentale e dei Paesi del Golfo, tesa a presentare lo Stato siriano ormai «sull'orlo del collasso»[42] dopo due anni di guerra per procura mascherata da «rivolta popolare»[43], ancora alla fine di marzo 2013, «l'Esercito siriano controllava le principali zone del Paese e continuava ad avere l'iniziativa»[44] delle operazioni anti-terrorismo.  Il 29 marzo 2013, in particolare, i media mainstrem occidentali, pressoché all'unisono, riportarono, inizialmente attraverso le solite quattro cinque agenzie di stampa e, successivamente, su carta stampata, la notizia diramata dal sedicente Osservatorio siriano sui diritti umani, relativa alla «significativa avanzata dei ribelli nella provincia meridionale di Deraa», con la conquista della città strategica di Dael da parte delle milizie dell'Esl. In realtà, la fonte di cui sopra, lungi dal poter essere considerata obiettiva ed indipendente, altro non era se non un centro di propaganda dell'«opposizione “siriana”», con sede a Londra, diretto da tal Rami Abdel Rahman, un personaggio politico con attive frequentazioni presso il ministero degli Esteri britannico[45]. La stampa siriana rigettava senza dubbio i comunicati emanati dall'Osservatorio situato a Londra, citanti i ripetuti «successi» sul campo dei «ribelli» nella loro «avanzata» verso Damasco. E' il caso di segnalare, a tal proposito, un estratto del 13 marzo 2013 da Al-Watan, uno dei principali quotidiani siriani, ovviamente sminuito dalla propaganda mediatica occidentale a mero «bollettino del regime», ma interessante per poter meglio decifrare gli eventi che si susseguivano sul terreno in Siria, ascoltando, per una volta, la «voce dell'altro».

 

Per trasmettere l'impressione che l'Esercito siriano sia indebolito e mancante di effettivi, e per far credere che i gruppi terroristici realizzino dei progressi sul terreno, dei media sovversivi hanno diffuso dei messaggi secondo i quali il comando militare ha decretato la mobilitazione militare e l'allerta massima per difendere Damasco contro un attacco che sarà lanciato il 15 marzo, in occasione del secondo anniversario dell'inizio della crisi. Fonti rilevanti a Damasco dissacrano queste informazioni e assicurano che l'Esercito detiene l'iniziativa sul campo di battaglia, e fa tremare sotto i piedi la terra di coloro che si caratterizzano come gruppi terroristi in Siria. L'Esercito dispone a tutt'oggi di tutti i suoi mezzi e non li ha implementati dall'inizio della crisi. Allo stesso tempo, le milizie dell'«armata libera» non hanno più i mezzi per lanciare dei vasti attacchi contro le grandi città e le loro strutture sono state distrutte da ormai sei mesi. Le stesse fonti indicano che l'Armata siriana ha ripreso il controllo di un gran numero di quartieri di Aleppo ed Homs, e della campagna attorno a Damasco. Molti residenti sono tornati alle loro case, che avevano abbandonato, soprattutto a Damasco ed Homs. Lo scopo di questa campagna mediatica è quello di aumentare il morale dei terroristi che permangono in Siria ed incoraggiare colo che si definiscono “jihadisti” per infiltrasi in Siria dopo aver avuto un adeguato addestramento, l'armamento ed il finanziamento da parte dei loro padroni americani, europei ed israeliani[46].

 

Non solo quella che poteva essere definita la «stampa del regime» ma anche fonti di informazione «indipendenti», ossia politicamente schierate a fianco dell'«Occidente democratico», erano, più o meno paradossalmente, costrette a convergere con quanto sostenuto dal quotidiano siriano sopra citato. Secondo un giornale libanese di orientamento filo-occidentale, infatti, nonostante i ripetuti tentativi, «i ribelli hanno stabilito teste di ponte in una serie di sobborghi di Damasco, ma sono stati soltanto in grado di spingersi in aree limitate, nelle parti meridionali e a nord-est della capitale. La loro unica grande incursione nella capitale, che ha avuto luogo lo scorso luglio, andò incontro ad una rapida conclusione per l'effetto di una controffensiva punitiva del regime, che spazzò via i ribelli dalla città»[47]. La stazione televisiva satellitare libanese Al Manar, vicina ad Hezbollah, riferì inoltre che la principale roccaforte dei «ribelli» a Damasco, ossia la strategica città-sobborgo di Daraya, si trovava, dopo tre mesi di assedio, sotto il controllo dell'Esercito siriano[48]. La debacle  rimediata a Daraya dai contras (che dall'inizio della guerra non erano riusciti a vincere alcuna battaglia contro le truppe regolari siriane, ed erano riusciti a penetrare nella città settentrionale di Ar Raqqa esclusivamente avvalendosi dell'arma del «tradimento»[49]) era riconosciuta dagli stessi ufficiali delle milizie operanti sul terreno[50]. Anche fonti propriamente occidentali, senza volerlo, «riconoscevano la supremazia territoriale e militare»[51] dell'Esercito siriano nei confronti dei «ribelli». Era il caso dell'Agence France Presse (AFP),  che a due anni dall'inizio del conflitto per procura in Siria, «pubblicò un dispaccio di sintesi relativo alla situazione sul terreno che mostrava, malgrado il tentativo di esagerare le realizzazioni dei gruppi armati»[52], quanto più sopra affermato in merito alla capacità di resistenza e di contrattacco delle Forze armate siriane. Vale la pena riportare integralmente il testo del dispaccio diramato da AFP.

 

Sul terreno la situazione è oggigiorno assai esplosiva in Siria. L'armata di Assad difende tutt'ora Damasco e dei territori nell'Ovest e nel Centro del Paese, mentre i ribelli, aiutati dai combattenti jihadisti avanzano progressivamente nel Nord e nell'Est. Stato della situazione dei combattimenti, regione per regione: Damasco e la sua provincia: Otto mesi dopo aver lanciato la “battaglia per la liberazione” di Damasco, i ribelli restano confinati nei quartieri periferici e le banlieues a sud ed all'est della capitale fortificata. L'armata respinge i loro tentativi di penetrare nel cuore di Damasco, dove importanti siti del regime sono comunque interessati da attacchi kamikaze, rivendicati in maggioranza dal fronte jihadista Al Nusra. La regione orientale di Al-Ghouta, dove i ribelli hanno preso piede, è stata teatro di aspre battaglie. Nel sud-est di Damasco l'Esercito ha tentato di riprendere completamente il controllo della città di Daraya. Nel Nord: A Raqqa (Nord-Est), il Fronte Al Nusra e Ahrar Al Sham hanno registrato il più grande successo, impadronendosi totalmente, il 6 marzo 2013, di Raqqa, capoluogo della provincia eponima. E' la prima grande città del Paese a cadere nelle mani dei ribelli. L'aviazione continua nondimeno a bombardare gli insorti. Nella regione di Idlib (Nord-Ovest), ampi territori della provincia sono in mano ai ribelli, ma la capitale provinciale è a tutt'ora controllata dall'Esercito. Con l'aiuto di jihadisti stranieri, arrivati attraverso la frontiera con la Turchia, i ribelli hanno preso due posti frontalieri e la base dell'Aviazione di Taftanaz. Gli islamisti nel Nord hanno un migliore accesso alle forniture di armi che non i ribelli nel Centro. Ad Aleppo, la seconda città del Paese, il fronte è stato aperto nel luglio 2012 con un assalto dei ribelli che controllano ormai la più parte della provincia. Il Fronte Al Nusra, accusato di essere legato ad Al Qaeda in Iraq, e per questo inserito da Washington sulla lista delle “organizzazioni terroristiche”, è regolarmente attivo ad Aleppo. Nell'Est: Nella provincia di Deir Ezzor. I ribelli approfittano della frontiera permeabile con l'Iraq per infiltrare armi e combattenti. Così, le opposizioni al regime hanno preso l'80 per cento della provincia, ma l'Esercito controlla a tutt'oggi la maggior parte della capitale provinciale. Il Fronte Al Nusra è ben impiantato a Deir Ezzor. Nella provincia di Hassaké, a maggioranza curda, i ribelli hanno combattuto i guerriglieri curdi a Ras al-Ain, dopo la conclusione di una tregua stipulata a febbraio. Anche in questa regione, gli jihadisti si sono impadroniti di vasti territori. Nel Centro: Dopo un assedio di nove mesi al bastione ribelle di Homs, l'Esercito ha lanciato una nuova offensiva, sostenuta dall'Aviazione e dalle milizie pro-regime. La riconquista delle enclavi ribelli ha assicurato all'Esercito il controllo totale del Centro del Paese. La regione di Hama è per adesso in maggioranza sotto il controllo dell'Esercito. Nell'Ovest: Il cuore della comunità alawita, confessione del presidente Bashar al Assad, è sotto il controllo dell'Esercito, ad eccezione di qualche enclave curda e turcomanna a nord di Latakia. Nel Sud: A Deraa, epicentro della rivolta, i ribelli hanno preso alcuni villaggi, ma la maggioranza della provincia è ancora sotto il controllo del regime. La città di Soueida resta dal suo canto complessivamente calma, i leader della comunità drusa, maggioritaria, hanno mantenuto una condizione di neutralità. Situata sulla linea del cessate-il-fuoco con Israele sul Golan, la provincia di Kouneitra è teatro di combattimenti sporadici[53].

 

 

  

Inoltre, alla fine di marzo 2013, il primo comandante formale dell'Esercito “siriano” libero, l'ex-colonnello dell'Aviazione di Damasco, Riad al Asaad, rimase gravemente ferito in un attentato tesogli nella città di Mayadeen, nell'Est del Paese. Ai dati sopra citati, e come detto provenienti da una fonte occidentale, era doveroso aggiungere che l'Esercito siriano, a tutto il marzo 2013, aveva impiegato soltanto una parte del suo potenziale di fuoco nelle operazioni volte a contenere l'aggressione cui il Paese era sottoposto. Secondo il già citato giornalista Thierry Meyssan, «una parte inconsistente dell'Esercito siriano prende parte all'operazione antiterroristica, non più del 25 per cento del numero totale delle Forze armate. Tre quarti dei militari, come prima, salvaguardano il confine e cercano di difendere la frontiera contro la NATO e Israele»[54]. Le tanto pubblicizzate, dal mainstream, occidentale (e non solo), «diserzioni» interne all'Esercito siriano ammonterebbero, in realtà, a non più del «5 per cento»[55] sul totale degli effettivi a disposizione del «regime». Secondo Meyssan, la Siria, diversamente dalla Libia, era «uno Stato forte, che continua a resistere. In questa regione ci sono pochissimi Stati forti, anche per questo si cerca di distruggere la Siria»[56]. A detta delle fonti in possesso del noto giornalista investigativo, «se si interrompesse l'ingresso di combattenti e di armi straniere in Siria, la guerra terminerebbe nel giro di un mese, altrimenti potrebbe durare decenni»[57], fino all'annientamento complessivo dello Stato e della nazione siriana.

Lo smantellamento dello Stato-nazione in Siria era però il vero obiettivo della guerra per procura mossa contro il «regime di Assad» da parte della ennesima riproposizione della «coalizione dei volenterosi» o «delle democrazie» (tra cui si annoveravano anche le monarchie assolutistiche e feudali di Arabia Saudita e Qatar[58]) a guida Usa. A dimostrazione di ciò, basti citare quanto una fonte certamente non annoverabile tra i sostenitori di Assad, il Washington Post, ha riportato in merito alle forniture di armi ed al programma di addestramento congiunto statunitense-giordano dei mercenari da inviare in Siria, con il compito di stabilire, lungo in confine con la Giordania, una cosiddetta «zona cuscinetto» sottratta alla sovranità di Damasco ed utile quale testa di ponte per un futuro intervento militare straniero diretto in Siria.

 

Stando al The Washington Post, che cita fonti americane e giordane, cresce l'impegno giordano-statunitense per addestrare elementi delle bande terroristiche siriane, in modo che, se le condizioni lo consentissero, questi possano creare una zona cuscinetto sottratta al controllo del governo legittimo di Damasco, nel sud della Siria, ai confini con la Giordania. Il piano, che prevedeva l'addestramento di tremila elementi appartenenti alle bande del cosiddetto Esercito libero da completare entro la fine di giugno, è stato adesso anticipato a fine aprile[59].

 

Il giornalista Giulietto Chiesa interpretò da subito il rinnovato impegno statunitense volto alla costituzione, tramite la fornitura di materiale bellico ed addestramento, di bande armate da infiltrare in Siria a scopo terroristico, quale messa in scena dell'«ultimo atto»[60] della guerra segreta condotta dalle potenze imperialiste e dai loro lacchè contro la Siria. Chiesa sosteneva, a ragione, che l'organizzatore della strategia nordamericana di assalto finale contro la Siria fosse l'ex-direttore della Cia David Petraeus, e che, l'attuazione di tale piano, da un lato confutava la vulgata secondo cui «Barack Obama non ce la raccontava giusta quando voleva far credere all'opinione pubblica occidentale che gli Stati Uniti non erano poi davvero molto interessati alla caduta di Bashar al Assad»[61], mentre dall'altro si innestava perfettamente nel novero della teoria neo-conservatrice del «caos costruttivo».

 

[…] a Washington, si ritiene ormai che sia meglio avere dei sunniti al governo di Damasco, piuttosto che degli sciiti alawiti. Ci sarà qualche sgozzamento di troppo, è vero, ma poiché l'obiettivo è quello di creare disordine e non di portare ordine, probabilmente sarà più funzionale questa soluzione […]. Siamo stati, negli ultimi mesi, spettatori di una commedia, il cui copione era di far credere che Washington fosse il moderatore dello scontro […]. Ora è tutto chiaro. E' in corso l'inizio dell'ultima fase. Che prevede una tattica lenta, non un blitzkrieg a breve scadenza. I comandi americani e Nato, in piena sintonia, hanno già calcolato che Bashar non è in condizione di resistere indefinitamente. Lo lasciano cuocere nel suo brodo, sempre più bollente. Circondato da ogni lato, con il solo afflusso (ma difficoltoso) di armi e uomini dall'Iran, sotto un embargo asfissiante. Con Israele anch'essa in posizione di apparente basso profilo, ma incaricato di controllare ogni movimento di mezzi e di uomini dal territorio libanese. La Giordania punto logistico cruciale assieme alla Turchia; l'Arabia Saudita e il Qatar in veste di emissari e finanziatori locali; basi Nato di transito e di stoccaggio nei diversi aeroporti turchi, ultima tappa prima della distribuzione alle formazioni armate che agiscono in territorio siriano. E tutto questo mentre, in parallelo, i servizi segreti americani, britannici, francesi, turchi, sauditi, israeliani già agiscono con squadre di commandos, con specialisti in azioni terroristiche, nelle città siriane non ancora raggiunte dall'esercito di mercenari jihadisti[62].

 

Il tutto, «senza fretta, naturalmente. Poiché bisogna costruire, nel frattempo, le tappe politiche che serviranno ai giornalisti embedded di tutto l'Occidente a descrivere l'aggressione militare in termini di restaurazione della democrazia in Siria»[63], ma con la quasi certezza che «con ogni probabilità, toccherà al prossimo ministro degli Esteri [italiano, nda] il compito di portare in guerra anche l'Italia in questa ultima avventura “democratizzatrice”»[64].

 

 

Paolo Borgognone, CIVG, 13 aprile 2013.



[1]   G. Kandil, Le plan US du dernier quart d’heure, cit.

[2]   Ivi.

[3]   L. Trombetta, Siria, l'inversione di rotta dell'America di Kerry. Il nuovo segretario di Stato americano ormai lo dice apertamente: «Vogliamo che Assad e i ribelli formino insieme un governo di transizione», in «Europa», 15 marzo 2013.

[4]   Ivi.

[5]   Ivi.

[6]   Ivi.

[7]   D. Pipes, The Case for Assad, in «The Washington Times», 11 aprile 2013.

[8]   Ivi.

[9]   L. Trombetta, Siria, l'inversione di rotta dell'America di Kerry. Il nuovo segretario di Stato americano ormai lo dice apertamente: «Vogliamo che Assad e i ribelli formino insieme un governo di transizione», cit.

[10] Non firmato, Nouvelles oppositions au Congrès contre le plan Kerry-Lavrov de paix en Syrie, in «Réseau Voltaire», http://www.voltairenet.org/article177941.html, 24 marzo 2013.

[11] M. Dinucci, Siria: la corsa all'oro nero, in «il manifesto», 2 aprile 2013.

[12] Ivi.

[13] Ivi.

[14] Ivi.

[15] Non firmato, Siria, il Qatar fuori gioco?, in «Numidia-liberum.blogspot.fr», http://numidia-liberum.blogspot.fr/2013/03/syrie-le-qatar-hors-jeu.html, 10 marzo 2013.  

[16] Ivi.

[17] Ivi.

[18] Ivi.

[19] Ivi.

[20] P. Khalaf, Limites états-unienne et division de l'opposition syrienne, in «Réseau Voltaire», http://www.voltairenet.org/article178034.html, 2 aprile 2013.

[21] Ivi.

[22] P. Lvov, Qatar's Great Power Games, in «Oriental Review», http://orientalreview.org/2013/03/30/qatars-great-power-games/, 30 marzo 2013.

[23] Ivi.

[24] Ivi.

[25] Affermò a riguardo il giornalista Tony Cartalucci: «I gestori degli interessi dell’impresa e della finanza americana spendono una quantità abnorme di denaro e di tempo nel sovvenzionare delle ONG, che promuovono i “diritti umani”; questo, non perché credano nei diritti umani, ma perché rappresentano un argomento politico su cui è conveniente fare leva, quando bisogna mobilitare l’opinione pubblica contro gli avversari geopolitici. Amnesty International, Human Rights Watch, Freedom House, il Fondo Nazionale per la Democrazia e molte altre organizzazioni sono finanziate e dirette dai più noti propugnatori della guerra e delle atrocità e, contrariamente a quanto ci aspetteremmo, molti di questi personaggi sono militanti neoconservatori». K. Ziabari, a cura di, La cronaca occidentale sulla Siria sta andando in pezzi, intervista a Tony Cartalucci, in «Teheran Times», 17 settembre 2012.

[26] Ivi.

[27] Ivi.

[28] Ivi.

[29] Ivi.

[30] R. Bou Chahine, Siria: Assad dopo Assad?, in «Limes Online»,  http://temi.repubblica.it/limes/siria-assad-dopo-assad/43962?printpage=undefined, 26 marzo 2013.

[31] Ivi.

[32] S. Cattori, Siria: “Il rapporto della commissione d'inchiesta dell'Onu è unilaterale”, intervista ad Anastasia Popova, in «Marx XXI», http://www.marx21.it/internazionale/pace-e-guerra/22032-siria-qil-rapporto-della-commissione-dinchiesta-dellonu-e-unilateraleq.html, 2 aprile 2013.

[33] K. Ziabari, a cura di, La cronaca occidentale sulla Siria sta andando in pezzi, intervista a Tony Cartalucci, cit.

[35] J. Dettmer, Syria's Media War, in «The Daily Beast», 4 aprile 2013.

[36] Ivi.

[37] K. Ziabari, a cura di, La cronaca occidentale sulla Siria sta andando in pezzi, intervista a Tony Cartalucci, cit. Sul tema, importante, vedasi anche: D. Estulin, L'impero invisibile. La vera cospirazione di chi muove il mondo, Castelvecchi, Roma, 2012.

[38] Cfr. a titolo meramente esemplificativo: R. Kagan, Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, Mondadori, 2003; R. Kagan, Il diritto di fare la guerra. Il potere americano e la crisi di legittimità, Mondadori, Milano, 2004; N. Podhoretz, La quarta guerra mondiale. Come è incominciata, che cosa significa e perché dobbiamo vincerla, Lindau, Torino, 2004; C. Rocca, Contro l'Onu. Il fallimento delle Nazioni Unite e la formidabile idea di un'alleanza tra le democrazie, Lindau, Torino, 2005.

[39] K. Ziabari, a cura di, La cronaca occidentale sulla Siria sta andando in pezzi, intervista a Tony Cartalucci, cit.

[40] Ivi.

[41] T. Meyssan, La Siria, vista dalla Russia. «Sotto i nostri occhi», cronaca di politica internazionale n° 32, in «Megachip», http://www.megachip.info/rubriche/67-cronache-internazionali/10048-la-siria-vista-dalla-russia.html, 31 marzo 2013. 

[42] Sin dal luglio 2012, con la fallita operazione «Vulcano di Damasco e Terremoto di Siria», i media occidentali coordinarono una propaganda di guerra lampo, progettata per rappresentare la Siria come sul punto di crollare, attraverso la «caduta imminente» di Damasco e Aleppo. Cfr. T. Cartalucci, Warning: “Final” Psy-Ops Vs Syria Begins, in «Land Destroyer Report», http://translate.google.it/translate?hl=it&sl=en&tl=it&u=http%3A%2F%2Flanddestroyer.blogspot.it%2F2013%2F03%2Fwarning-final-psy-op-vs-syria-begins.html&anno=2, 29 marzo 2013.   

[43] Cfr. T. Cartalucci, World Must United Against US-Saudi-Israel Proxy War in Syria, in «Land Destroyer Report», http://translate.google.it/translate?hl=it&sl=en&tl=it&u=http%3A%2F%2Flanddestroyer.blogspot.it%2F2013%2F03%2Fwarning-final-psy-op-vs-syria-begins.html&anno=2, 30 marzo 2013.

[44] G. Kandil, Le plan US du dernier quart d’heure, cit.

[45] T. Cartalucci, Warning: “Final” Psy-Ops Vs Syria Begins, cit.

[46] Cit. in G. Kandil, Le plan US du dernier quart d’heure, cit.

[47] N. Massih, O. Alabaster, Assad forces step up campaign against rebels across Syria, in «The Daily Star», 4 aprile 2013.

[48] Ivi.

[49] T. Meyssan, La Siria, vista dalla Russia. «Sotto i nostri occhi», cronaca di politica internazionale n° 32, cit.

[50] Cfr. P. Khalaf, Limites états-unienne et division de l'opposition syrienne, cit.

[51] G. Kandil, Le plan US du dernier quart d’heure, cit.

[52] Ivi.

[53] Cit. in Ivi.

[54] A. Artamonov, La Siria si ribella all'invasione occidentale, intervista a Thierry Meyssan, in «La Voce della Russia»,  http://italian.ruvr.ru/2013_03_29/La-Siria-si-ribella-allinvasione-occidentale/, 29 marzo 2013.

[55] Ivi.

[56] Ivi.

[57] Ivi.

[58] Cfr. a titolo meramente esemplificativo: P. DM., Arabia, legge del taglione condannato alla paralisi, in «La Stampa», 5 aprile 2013.

[60] G. Chiesa, Siria: comincia l'ultimo atto, in «Megachip», http://www.megachip.info/tematiche/guerra-e-verita/10062-siria-comincia-lultimo-atto.html, 2 aprile 2013.

[61] Ivi.

[62] Ivi.

[63] Ivi.

[64] Ivi.