Niente di nuovo sul fronte digitale? Intervista a Marco Guastavigna / Parte 1

Questa intervista fa parte di un ciclo dedicato alle tematiche lavorative. Il gruppo di approfondimento del CIVG intervisterà studiosi e lavoratori per tracciare un quadro dei mondi del lavoro.

 

 

 

Le nuove tecnologie digitali stanno accelerando un passaggio interno al modo di produzione capitalistico, un cambiamento sociale profondissimo che si riverbera sui modi di consumo, sulla costituzione e conduzione delle mappe culturali, e che produrrà i suoi maggiori effetti soprattutto nel mondo del lavoro. Con le nuove tecnologie il lavoro si trasforma e (forse) si arricchisce, ma – a differenza di quanto raccontano molti “tecnoentusiasti” – la connessione perenne e l’accessibilità estesa non sono immediatamente sinonimo di libertà.

 

È vero: l’approccio al digitale più diffuso è tendenzialmente unilaterale, centrato sugli aspetti tecnico-comunicativi e portatore di un’idea deterministica del progresso, processo univoco ed inarrestabile, a cui - in nome dell’innovazione concepita come fine anziché come strumento- va concessa piena irresponsabilità a proposito di conseguenze occupazionali, ecologiche, culturali… umane, insomma.

 Moltissimi di coloro che utilizzano gli strumenti digitali, infatti, condividono del tutto inconsapevolmente ciò che Harari chiama pregiudizio strutturale: anche chi è in posizione sociale evidentemente subordinata a proposito di dispositivi, App, relazioni di rete – quando non anche dell’insieme dell’universo liberista – è infatti confinato nel recinto antropologico e culturale delle élite globali, globalizzate e globalizzanti, ciò che il collettivo Ippolita lucidamente definisce tecnologie del dominio.

Per fortuna, quantitativamente minoritarie – in particolare in Italia e soprattutto nell’Accademia nazionale -, ma lucide e illuminanti, vi sono anche posizioni ad alto tasso di qualità e divergenza, che, ancor più felicemente, hanno prodotto vari materiali orientati all’emancipazione dal pregiudizio liberista dominante.

Per quanto riguarda il controllo delle prestazioni di lavoro, per esempio, vi sono numerose pubblicazioni che ragionano sul monitoraggio oppressivo e incalzante dei tempi e del raggiungimento degli obiettivi e sulla retribuzione legata non all’orario ma all’apporto in termini di produttività, oppure sulla polverizzazione da parte degli strumenti di mediazione tecnologica “a distanza” delle relazioni orizzontali tra prestatori d’opera non previste delle procedure aziendali.  

Un’evidente conseguenza della digitalizzazione e della dematerializzazione delle informazioni e della comunicazione in genere e della possibilità di operare in remoto 24 ore al giorno per 365 giorni l’anno, a costo prossimo allo zero, è stato ed è l’incremento della flessibilità e del lavoro dipendente trasformato in imprenditivo.

Sempre più aziende, infatti, si sono mosse nella direzione dell’esternalizzazione, cioè dell’affidamento di funzioni specifiche. a terzi, detti outsourcer, cioè «fonti esterne», con competenze specialistiche e organizzazione ottimizzata allo svolgimento di quanto richiesto. Aziende e outsourcer stipulano contratti, con durate stabilite: successivamente l’azienda valuterà se riportare le funzioni al proprio interno, oppure mantenere o cambiare fonte esterna. Sta a quest’ultima farsi apprezzare di volta in volta.

Accanto all’esternalizzazione si colloca il trasferimento al cliente di una serie di funzioni operative, come avviene nell’e-commerce, nell’home banking e nel trading online, ma ancora più brutale è l’attività delle piattaforme di intermediazione “neutre”, in sé non finalizzate ad alcuna produzione e ad alcun servizio, costruite per fare profitto sulla propria capacità di coordinamento. In cambio di una percentuale sulla transazione, esse mettono in contatto coloro che dispongono di risorse sottoutilizzate (immobili, mezzi di trasporto, particolari capacità professionali, frazioni di tempo e così via, impalcatura della gig economy, l’economia dei lavoretti) con potenziali consumatori, attirati dai prezzi ridotti.

C’è chi sostiene che la sharing economy sia una sorta di integrazione di un welfare sempre più ridotto e difficoltoso, ma c’è anche chi si è accorto che siamo di fronte al pieno trasferimento del rischio di impresa sugli esecutori finali della prestazione richiesta, che sono gli unici a essere pienamente responsabili e su cui ricadono flessibilità e adeguamento dei tempi di lavoro. Con precarizzazione anche di garanzie e tutele dei consumatori.

Insomma, se è ancora aperto il dibattito tra coloro che sostengono che la trasformazione del lavoro nella direzione dell’immateriale porterà a una drastica riduzione dell’occupazione e coloro che invece sostengono che vi saranno meccanismi e politiche di compensazione, se non di incremento, è invece indiscutibilmente in corso una pesante e sempre più ampia compromissione della dignità del lavoro quale occasione di partecipazione sociale, dei diritti ad esso connessi e quindi di una visione democratica ed egualitaria delle relazioni sociali.

A questo scopo, ricorro a una definizione molto efficace dell’epoca in cui stiamo vivendo, il  Capitalocene, che ben sintetizza il fatto che ai nostri tempi il modello antropologico e culturale uscito vittorioso dalla – presunta - fine della lotta di classe tende a portare a valore economico l’intero ecosistema, considerato come Mercato, ambiente unico ed unificante, di cui vanno imposte e rispettate le regole equilibratici, quelle che governano il conflitto tra capitale e lavoro a favore del primo.

Motore immobile del Capitalocene è il profitto, che deve essere rapido, se non immediato. In quanto fine ultimo, esso motiva e giustifica il radicale sfruttamento sia delle risorse via via disponibili sia di quelle prospettabili: anche i dipartimenti di ricerca finanziati con denaro pubblico, infatti, sono spesso coinvolti in questa logica fin dai primi momenti progettuali e organizzativi. 

Il Capitalocene porta così alla sua forma più estrema la mercificazione del lavoro. Esso è sussunto definitivamente a componente subordinata del meccanismo generale della competizione di impresa, grazie anche al contributo essenziale degli algoritmi, definiti da Zellini sequenze di operazioni in cui ad ogni passo è già definito in modo deterministico quale sarà quello successivo; la sequenza, inoltre, deve essere effettiva, perché il suo scopo è ottenere un risultato concreto, reale e virtualmente utile. Questa seconda connotazione, aggiunge, è essenziale (senza un risultato la procedura è inutile), ma difficile da definire.

 

 

 

Certamente questa seconda affermazione di Zellini è convincente in generale, ma, se l’obiettivo degli algoritmi è la massimizzazione del profitto, vi sono tutti i criteri e gli strumenti per misurare concretezza, realtà e utilità degli esiti.

 

Vediamo più da vicino. Dematerializzati in bit, i flussi finanziari e informativi, veloci e ubiquitari, costituiscono un nuovo strato, assai vincolante, dell’atmosfera del pianeta perché assoggettano le prestazioni di lavoro a una logica di tipo macchinico: ricevere uno o più input, eseguire una procedura strutturata, produrre un output.

Questa visione comporta per i prestatori d’opera umani un alto tasso di sostituibilità da parte delle macchine medesime, che possono docilmente operare just in time, secondo le esclusive esigenze dell’impresa o della rete di imprese che le utilizzano, quando e per il tempo in cui i costi del loro impiego siano vantaggiosi.

 

 

Nemmeno le attività ad alta intensità cognitiva sono indenni da questa potenziale irruzione, perché è in continua espansione il machine learning (apprendimento automatico): spesso supportati dagli “operai del clic”, impegnati nel micro-lavoro digitale di scansionamento, anonimizzazione, prima classificazione dei documenti e dei dati, i computer imparano ad eseguire compiti senza essere inizialmente programmati, perché utilizzano reti neurali capaci di imparare dai dati trattati mediante il riconoscimento di schemi e di relazioni, e arrivano a individuare informazioni inizialmente sconosciute senza un esplicito orientamento iniziale.

In proposito, Quintarelli mette in rilievo che questa modalità di classificazione dei dati e di decisione ha una capacità discrezionale intrinseca, perché si tratta di un’attività probabilistica, che si fonda sugli esempi proposti al sistema da addestrare: a selezionare e fornire questi dati sono persone che potrebbero scegliere con lo scopo di condizionare il sistema oppure alimentarlo sulla base delle distorsioni e dei pregiudizi (bias) diffusi nella società.

Il risultato di questi processi di applicazione algoritmica o di costruzione statistica di modelli è l’intenzionale e predatoria trasformazione in sapere/lavoro morto di sempre maggiori quantità di sapere/lavoro vivo, di provenienza umana, ma anche “post-umana”, ovvero di esclusiva competenza operativa dei dispositivi elettronici, perché i Big Data sono quantità di informazioni così ampie da poter essere sfruttate soltanto attraverso le capacità di calcolo dei dispositivi elettronici e degli algoritmi.

Nel Capitalocene, però, l’espropriazione della conoscenza mediante i dispositivi digitali va oltre. Sto parlando del capitalismo di piattaforma, ben esemplificato da corporation come Facebook o Google. Entrambi, come tutti i mediatori informazionali su base proprietaria, offrono servizi apparentemente gratuiti, concepiti allo scopo di innescare relazioni, e che forniranno pertanto dati aggregabili mediante analisi algoritmica sia conoscitiva sia predittiva.

Il ciclo è molto semplice. Ottenuto il proprio permesso di soggiorno digitale (account) in cambio della cessione dei propri dati identificativi generali, ogni utente dei servizi di rete comincia a produrre ricorsivamente relazioni, a cui assegna un proprio valore d’uso, perché mette in atto volontariamente - e spesso in modo gratificante - interazioni con altri partecipanti alle attività. La piattaforma realizza valore di scambio - e quindi profitto - sottoponendo i dati prodotti a trattamento algoritmico di profilazione di massa: analizza, elabora, aggrega, a scopo di marketing, di posizionamento sul motore di ricerca e/o di previsione e manipolazione dei comportamenti, in particolare di quelli relativi al consumo o alla politica.

Non ha probabilmente torto chi sostiene che i prosumer (contemporaneamente produttori e consumatori) dei contenuti di rete sono in realtà lavoratori non retribuiti: non essere parte della società interconnessa è di fatto impossibile, e si è quindi vincolati a fornire Post, “Mi piace” e altre forme di condivisione agli algoritmi di Mark Zuckerberg e a incrementare l’efficienza di PageRank nel campo del consumo culturale.

Siamo di fronte, insomma, al plusvalore di rete, ottenuto mediante un’egemonia culturale, comunicativa e operativa che induce la diffusione di lavoro mercificato, ma in qualche modo sublimato, nel tempo di vita degli esseri umani.

Griziotti introduce a questo proposito il concetto di neurocapitalismo, messa a lavoro e valore di ogni processo neuro-fisiologico, ovvero di sensazioni, percezioni, emozioni, affetti, sentimenti, umori, mediante l’analisi delle tracce digitali lasciate da ciascuno di noi. Questo autore assegna particolare importanza alla predizione di schemi affettivi ed emozionali attraverso l’analisi algoritmica delle correlazioni emotive individuabili nei Big Emotional Data, alla cui raccolta possono dare un contributo crescente, oltre ai dispositivi più abituali, in particolare gli smartphone, i sensori biometrici, la cui diffusione commerciale e la cui valorizzazione antropologica e culturale sono in ascesa.

Il tema del digitale si intreccia qui con quello delle biotecnologie e del corpo, o – per meglio dire – del suo possibile futuro. E qui devo per forza di cose e di immagini citare di nuovo Harari. In primo luogo, perché parla dell’essere umano come di un “animale audiovisivo”, essere vivente dotato di un paio di occhi e di un paio di orecchi, connessi a dieci dita, uno schermo e una carta di credito (o magari a una card di cittadinanza). Esso è il frutto dell’adattamento a un ambiente regolato dal mercato, con l’intervento massiccio dei mediatori informazionali, che ne accompagnano, sorvegliano e indirizzano la vita quotidiana, individuale e di specie. Harari si spinge anche ad immaginare per il futuro un Homo Deus, élite con privilegi economici e culturali, capace addirittura di non temere più la morte per patologia e per logoramento, perché in grado di acquistare merce-salute al massimo grado. Sulla stessa linea l’Homo Premium di Massimo Gaggi, che attribuisce alle tecnologie la possibilità di portare all’estremo la polarizzazione dei redditi, dei patrimoni, delle opportunità materiali e culturali e di conseguenza delle condizioni e delle prospettive di vita.

 

Negli ultimi anni abbiamo iniziato a sentir parlare di gamificazione, uno degli strumenti più efficaci per motivare i soggetti e indirizzarli verso obiettivi (scolastici o lavorativi) quantificabili. Cosa è di preciso la gamificazione, e come pensi possa modificare contesti come l’impresa e la scuola? Qual è la sua portata, e che rapporto ha con quella che tu definisci società della prestazione

 

 

 

La gamificazione è un eccellente e paradigmatico esempio di penetrazione strisciante della visione liberista a proposito dell’impatto delle strumentazioni digitali sulla vita collettiva, in particolare sull’istruzione. Molto diffuso è infatti un approccio ingenuo: da una parte si accoglie con favore l’idea del gioco e l’introduzione di aspetti ludici in contesti operativi e cognitivi in cui d’abitudine questo non avviene e dall’altra si afferma che la modalità “game” può incrementare la partecipazione alle attività così riconcepite e ristrutturate.

Qualcun altro va oltre e sostiene che ciò che l’inserimento di modalità tipiche del gioco competitivo – definizione di un obiettivo strategico e di sotto-obiettivi tattici, assegnazione di punteggi e di status, accesso e superamento di livelli, fornitura di ricompense, premi, benefici e così via- facilita la misurazione degli esiti e dei percorsi e quindi il monitoraggio individuale e collettivo, compresa l’individuazione dei punti critici e particolarmente difficili di un percorso di lavoro o di apprendimento.

Questa prospettiva associa con lucidità la gamificazione alla datificazione - cioè alla scomposizione e classificazione delle attività didattiche e dei conseguenti apprendimenti in elementi misurabili con scale numeriche -,  ma non coglie completamente la mentalità sottesa e le sue implicazioni.

La gamificazione, infatti, crea le condizioni perché l’istruzione diventi concorrenza, sfida, agonismo. Imparare significa gareggiare, affermarsi, sottoporsi a selezione, vincere. E anche perdere.

Altro aspetto diseducativo – o forse educativo nella direzione di una pedagogia e di una mentalità liberista – è la riduzione del gioco a individuazione ed esecuzione ottimizzata di azioni richieste da regole prefissate, non negoziabili e non modificabili dai partecipanti, ma fissate una volta per tutte da coloro che hanno costruito il contesto gamificato, gestito  -of course- in modalità algoritmica.

Apprendimento come competizione eterodiretta e sudditanza alla cultura algoritmica: siamo di fronte a un potenziale allenamento precoce allo status di lavoratore imprenditivo, in costante concorrenza con gli altri e soggetto alle supreme e indiscutibili regole del mercato.

Allenamento che non avviene soltanto a scuola. Anche Facebook funziona infatti in questo modo: è una piattaforma dotata di una volontà sovrana, sulla quale si agisce secondo regole predefinite, che sono modificabili solo con atti centrali unilaterali. In cambio di questo assoggettamento assoluto, l’incremento di visibilità e notorietà.

In modo analogo agiscono applicazioni e dispositivi destinati al monitoraggio dell’efficienza fisica: obiettivi, statistiche e badge a proposito di passi, piani saliti, calorie consumate, ore di sonno, frequenza cardiaca e così via, con raccolta quotidiana, condivisione nel gruppo dei “pari” (i concorrenti più prossimi, quelli che condividono il medesimo orizzonte competitivo) ed eventuale esibizione collettiva. In attesa che questi dispositivi diventino gadget e obbligo contrattuale delle polizze di assicurazione sanitaria.

La gamificazione è l’aspetto più evidente del sempre più capillare diffondersi in istruzione, lavoro e intrattenimento – distinzione sempre più sfumata, ma che mantengo per comodità comunicativa – della mentalità che afferma il primato della prestazione, ovviamente misurata e condivisa (esposta).

La società del liberismo digitale tende a controllare e valutare con sistemi automatici e cibernetici e sensori di vario genere ogni nostra azione, fissando l’obiettivo operativo ed esistenziale di aumentare costantemente il livello delle prestazioni, assegnando a questo afflato la valenza di piena e irrinunciabile realizzazione.

Ho già citato le condivisioni e i “like” dei social media commerciali, il lavoro imprenditivo e il fitness: aggiungo ora il consumismo, la speculazione finanziaria e la trasparenza radicale, ovvero l’idea che la riservatezza personale e la privacy siano stati di minorità, a cui sottrarsi mediante una costante esposizione mediatica, spacciata per socialità compiuta.

Il darwinismo sociale impone insomma le proprie dure regole tramite filiazione digitale: la competizione è l’anima e lo scopo delle dinamiche relazionali, il lavoro è job just in time, l’istruzione è subordinata nei modi e nei fini all’acquisizione di competenze voucher, da acquisire in funzione delle esigenze dell’impresa e da investire sul mercato dell’occupazione.

Il campo che conosco meglio è l’istruzione: e qui è passata da tempo l’idea che le istituzioni scolastiche siano in concorrenza le une con le altre. Proprio i finanziamenti per le attrezzature digitali, anzi, sono stati il grimaldello professionale e culturale perché questa visione diventasse egemonica: da più di vent’anni è in atto la politica dei bandi nazionali e locali, al termine dei quali alcuni istituti vengono premiati ed altri esclusi. Spesso, aver vinto in precedenza dà garanzie per le successive tornate. Le istituzioni da enti garanti diventano banditori e giurie.

Recentemente, poi, sono stati introdotti meccanismi premiali anche per il personale docente, con valutazione e assegnazione di bonus in denaro da parte del dirigente scolastico. Parallelamente si diffondono gli accertamenti centralizzati sugli apprendimenti mediante prove strutturate a punteggio, che praticano la datizzazione sul piano nazionale. L’istruzione pubblica (la scuola quale istituzione repubblicana) è immersa in un processo di aziendalizzazione, con il consolidamento definitivo al suo interno della gerarchizzazione di status e di ruoli professionali.

Chi è interessato a modificare la propria posizione professionale deve a sua volta incrementare il livello delle prestazioni, ovviamente secondo le regole omologanti fissate dal sistema, che anche in questo caso fornisce le risorse e indica i criteri di selezione: c’è sempre meno spazio per la negoziazione autonoma e per la cooperazione, foriere invece di esclusione dai canali che forniscono finanziamenti, visibilità, prestigio e credibilità da parte dei clienti (famiglie e studenti).

 

Marco Guastavigna (1952), già insegnante di Materie letterarie nella scuola secondaria di primo e secondo grado, formatore e professore a contratto, tra gli ultimi a godere di vitalizio previdenziale su base retributiva, divide le proprie residue energie tra nonnità e pensiero ostinatamente critico. Da quasi vent’anni tiene traccia della propria attività intellettuale e professionale in Noiosito.it, denominazione profetica della considerazione a proposito del ragionamento complesso diffusa nei tempi attuali.