Pillole di storia operaia. Esposti a morte.

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14. settembre 2018

 

 

Pillole di storia operaia. Ci hanno esposto alla morte…
QUALCHE RIGA COME INTRODUZIONE… 

1981. Breda Fucine di Sesto San Giovanni. “A trenta metri dal mio posto di lavoro, nello stesso gigantesco capannone, c’era il “macchinone”, all’inizio della “seconda linea”. Vi si producevano aste per l’estrazione petrolifera su licenza americana. La “seconda linea” era stata acquistata nuova di pacca, perché nello stabilimento di Houston (Texas, USA) – stranamente – l’avevano accantonata subito dopo averla completata. Chissà perché?

Perché – lo abbiamo saputo parecchio tempo dopo – di morti ne avevano già seminati abbastanza gli impianti di quel genere montati in precedenza nella fabbrica americana.
Forse lo sapevano già da allora i dirigenti che avevano mandato negli USA a visionare l’impianto il tecnico Lazzati, che poi era diventato il caporeparto della seconda linea: è morto qualche mese fa, anche lui, per tumore ai polmoni, quel tumore che è causato dalle fibre di amianto che si diffondono nell’aria”. 

Questa vicenda ce la racconta così bene Ezio Partesana, che preferisco lasciare lo spazio a lui, riproducendo un suo scritto pubblicato nel febbraio ’98. Intanto, noi ex operai Breda, che abbiamo costituito il “Comitato di Difesa della Salute nei luoghi di Lavoro e nel Territorio”, ci incontriamo ogni giovedì sera nella sede provvisoria che il comune di Sesto ci ha dovuto concedere, in attesa che la ristrutturazione dell’area Breda si compia; allora ci metteranno a disposizione un pezzo dell’unico capannone che hanno progettato di tenere in piedi apposta per non dimenticare (?) che cos’era la Breda… Così ci hanno promesso; e potete scommettere che noi faremo di tutto per fargli mantenere la promessa…

LA LINEA DEL FUOCO 
Storia degli operai e del reparto aste

Sesto San Giovanni, periferia nord di Milano, città ridotta in frammenti sospesi tra la produzione e un futuro da tecnocity , agenzie per lo sviluppo, piani di conversione, tradizione operaia, civiche scuole d’arte, fabbriche che spariscono: Falck, Breda, Pirelli, Marelli… Chi abita adesso a Sesto è probabilmente qualcuno che non c’era trent'anni fa. La memoria che se ne conserva non è di nessuno, sono i capannoni con già sopra scritti i piani di ristrutturazione residenziale e i pensionati ai giardini che non possono essere ingannati. La giunta comunale riempì gli incroci vent'anni orsono con grandi cartelli stradali bianco, rossi e verdi con sopra scritte frasi della costituzione italiana; adesso vogliono far lo stesso per ricordare le grandi fabbriche e mettere delle insegne “qui sorsero le acciaierie”, “in questa piazza c’era l’ingresso delle tute blu verso le catene di montaggio” e “ecco il reparto dove su trenta operai trenta entrarono nelle squadre di azione partigiana”.

Ne vogliono cavar fuori un museo urbano, rendere l’onore delle armi e mettere a riposo i combattenti dell’unica guerra mondiale che non ha avuto un trattato di pace e che produce ricchezza maldivisa e morti al ritmo di qualche migliaio. In Italia, nell’anno di grazia mille e novecentonovantasette.

«Finito il corso mi misero sul “macchinone”: una macchina enorme, almeno tre metri per quattro, dove saldavamo le aste. Mi sentivo felice; dopo quattro anni finalmente ero entrato in una fabbrica vera, operaio saldatore. Avevo dei guanti lunghi e un grembiule. Scendevano delle aste per il preriscaldo del giunto, un manovale le sistemava sotto la macchina, poi si chiudeva e si faceva la saldatura. Per poter lavorare con quelle temperature e le scintille, c’erano delle coperte di amianto che mettevamo sopra il pezzo; ogni cento, duecento aste, la coperta era bruciata e ridotta in polvere, e bisognava cambiarla. Lavoravamo in quattro a quella macchina; adesso sono morti tutti e tre, sono rimasto io solo come vivente. Saldavamo le aste alla Breda Fucine, riparandoci gli occhi e le mani con l’amianto. C’era un mio collega che veniva da Bergamo, mi ricordo benissimo, veniva mezz’ora prima per accendere il fuoco e aprire il tetto per cacciare fuori la nuvola di fumo delle saldature del giorno prima. C’era polvere dappertutto. Lì si usava un metodo che si chiama saldatura a scintillio: i due pezzi venivano riscaldati e poi con una corrente fortissima si fondevano l’uno con l’altro. A volte dei frammenti cadevano nella vasca di recupero dell’olio e si incendiava il macchinario. E allora dovevano scendere sotto e spegnere il fuoco con dei piccoli estintori; ci tenevano fermi per un’ora, un’ora e mezzo e poi si riprendeva il lavoro. Io su questa macchina ci ho lavorato dal ’74 fino all’83, dieci anni. Ci davano il mezzo litro di latte al giorno se cominciavamo a tossire o a vomitare; a volte i sindacati ci facevano fermare ma non c’era nessuna resistenza; non mi dicano che difendevano gli operai, a me e ai miei compagni non ci ha difeso nessuno. È venuto anche lo Smal, il servizio di medicina preventiva per gli ambienti di lavoro, che ha fatto la relazione indicando punto per punto tutto quello che non andava, e teniamo tanto di documentazione su quel reparto mattatoio. Al padrone gli interessava il lavoro, che lì fosse pericoloso o micidiale se ne sbatteva. È morto Crippa Giovanni, poi Franco Camporeale, poi Biagio Megna: insomma a distanza di cinque, sei anni son morti più di dieci. In un reparto di ventisei persone son morti in diciannove, e quattro stiamo combattendo la morte».

Chi ha vissuto a Sesto San Giovanni si ricorda il rosso sopra i tetti a rombo delle fonderie, aperti di notte per ripulire gli stanzoni, e il villaggio Falck, di case per gli operai vendute con la cessione del quinto dello stipendio. Si ricorda la metropolitana che non c’era e i cortei che andavano a piedi fino al confine con Milano per raggiungere il luogo di concentramento. E anche gli anni della crisi, le scuole del Parco Nord con la colletta per i figli dei cassintegrati, le biblioteche in ogni quartiere, e l’orgoglio un po’ stupido di non essere Cinisello o Bresso ma la “Stalingrado d’Italia”. C’era lo stabilimento del Campari, con la villa e il bellissimo giardino chiusi da muri in cemento con i cocci di vetro perché non si scavalcassero, e una follia di targhe per i partigiani uccisi dai fascisti, la Villa Ghirlanda sede dell’Anpi e il palazzo del comune disegnato da Bottoni (ma nessuno lo sa) e fotografato nei manuali per architetti.

«Io non chiedo niente, chiedo giustizia, per me e per i familiari dei miei compagni. È chiaro, dopo che han visto i morti, questo reparto l’han fatto sparire. Quando gli americani hanno portato la macchina c’era un mio capo, che adesso sta male, Giuseppe Gobbo, che gli ha chiesto come mai la vendessero. Gli han risposto che finalmente se ne sbarazzavano. È chiaro, l’avranno pagata una fesseria. A loro interessava il lavoro, tanto anche se muoiono gli operai non è una grande mancanza. Io ho un linfoma maligno, non so chi devo ringraziare, ho avuto vari interventi ma voglio viverci con questo tumore, a tutti i costi. Ho visto morire i miei colleghi, e ancora continuano. L’ultimo è morto due settimane fa, il Morano. Perché lì oltre all’amianto – adesso l’amianto fa paura – era tutto l’insieme. Morano era un molatore, ma c’erano gli oli bruciati, il cromo, il nichel, fusi, polverizzati. Diciamo l’amianto, ma era il lavoro a ucciderci. Poi, tanto per completare, l’ex Breda Fucine, che è diventata Breda Energie m’aveva anche sbattuto fuori in cassa integrazione. Meno male che il privato che ha comprato la Breda m’ha fatto il passaggio diretto e mi ha assunto come custode; perché io devo ancora finire i miei trentacinque anni di lavoro, lavoro dipendente per andare in pensione».

Il 12 luglio dello scorso anno il comitato dei malati e dei famigliari ha posto una lapide per gli oramai trentuno lavoratori morti di tumore. Ma si tratta di una parte. Moltissimi degli operai venivano da fuori e sono tornati a casa, e non è possibile sapere come stiano. Una dirigente della Ussl di Sesto si sta dando da fare. Per legge può richiedere le cartelle mediche in giro per tutta Italia, ma ha bisogno di conoscere nome, cognome e residenza. Ci vorrebbe quindi l’elenco completo, ma la Breda non molla i libri delle assunzioni e i mansionari, e allora si procede a tentoni, cercando di ricordare dove andasse a trovare i parenti quello che ti stava accanto vent’anni prima al tornio, come diavolo facesse di cognome, o se qualcuno lo sente ancora.

«È difficile ricostruire la storia. Generalmente uno muore e tende a nascondere la malattia, non la vede mai come un fatto sociale. Ci vuole una voce comune, un’organizzazione perché vengano fuori e ti raccontino quel che hanno subito. Abbiamo potuto cominciare a contare i morti solo quando i familiari o gli amici avevano sentito da qualche parte del comitato e sono venuti a trovarci. Io sono nato a Noicattaro, un paesino in provincia di Bari. In casa eravamo in undici, mio padre era custode comunale, mia madre una casalinga. A me piaceva lavorare, avevo buona volontà. Ho fatto il muratore, ho aiutato i pescatori, anche il contadino ho fatto perché Noicattaro è un centro dell’uva da tavola, l’uva “regina”; ma il lavoro era quello che era e ho preferito emigrare. Ho preso il treno, da solo, quando davvero si viaggiava con le valigie di cartone e per i primi tempi mi ha ospitato uno del mio paese, Spagnolo si chiamava. Sono arrivato a Cologno e mi ricordo benissimo quando vidi il metrò che dissi: sono matti, il treno sotto terra. Però erano tempi belli. Io non vado a sputare nel piatto dove mangio. Alla Breda ho dato, però ho anche avuto; ai pendolari, a qualcuno, davano la casa. Dopo sposato io ho avuto la casa Breda: pagavo l’affitto ma basso, e quando la fabbrica ha chiuso ce le hanno vendute le case, e ci abitiamo ancora adesso. A loro faceva comodo avere gente che lavorasse, che avesse buona intenzione di lavorare. Quando sono venuto a Milano io non conoscevo neppure che cosa fosse la pinza, quando m’hanno portato in forgia per me era tutto da imparare. Milano era come fosse l’America e volevo vederla. Poi ci sono rimasto. In sostanza non è che stavo male, io la malattia l’ho scoperta nel ’92, però faceva impressione vedere come si lavorava, mi dicevo: ma possibile, ci si lavora così a Milano? Credevo che non ci dovessero essere come giù nel meridione, in Sicilia, i padroni dietro, invece… m’ha deluso la fabbrica. Ho dovuto prendere la mia ragazza da giù perché mi sentivo solo. Subito mi sono sposato e abbiamo costruito una famiglia; il lavoro c’era, la casa l’avevo, ed era quello il significato, di crearmi una famiglia».

Nel 1969 a Milano i servizi segreti mettono una bomba alla Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana, accusano Valpreda, uccidono Pinelli. Ci sono gli scioperi duri per il rinnovo del contratto. Centomila meridionali, come ogni anno dal 1967 al 1974, giungono alle fabbriche del nord e oltre sei milioni e mezzo di lavoratori sono iscritti al sindacato. Tecnici dell’Ibm di Milano si uniscono a impiegati della Sit-Siemens e a operai della Pirelli per formare il Collettivo Politico Metropolitano, che è la prima formazione della Nuova Sinistra. Luigi Longo è il segretario del Partito Comunista. Tra i chimici di Castellanza nasce il nucleo di Medicina Democratica con Luigi Mara e Giulio Maccacaro. Le Brigate Rosse compiono le prime azioni, studenti del collettivo di Giurisprudenza formano il Soccorso Rosso. De Gaulle in Francia dichiara che la ricreazione è finita e che sotto le pietre non c’è più la spiaggia. In Viet Nam, conclusa l’offensiva del Tet, gli Stati Uniti continuano a perdere la guerra mentre trasformano le campagne in deserti di fuoco e ferro. Nella Repubblica Popolare di Cina, la rivoluzione culturale è al suo culmine. E Giambattista Tagarelli arriva a Milano.

«Erano gli anni che si poteva. La Breda Fucine era una delle fabbriche dove si poteva. Una volta i brigatisti hanno preso un capo e lo hanno legato a un albero. Io che venivo da un paesino, vedere quelle cose, leggere i loro comunicati in bacheca, faceva paura. Ma il sindacato era forte e io ho sempre avuto la tessera. Solo quando ci siamo ritrovati, io e i miei compagni di reparto, tra morti e malati, non mi sono più iscritto, anche se le ho conservate tutte le tessere con i bollini. Il mio sindacato faceva solo politica, ma agli operai niente. Io in un sindacato così non ci potevo stare con la storia delle compatibilità. Ma quale compatibilità? Se le fabbriche sono incompatibili con la società è un problema dei padroni, non nostro. Ci siamo organizzati in un comitato proprio per questo: per avere il coraggio di difenderci da soli. Abbiamo il diritto di difenderci, diritto di essere risarciti, tutti».

Ci sono più di tre milioni di metri quadri di aree dismesse nei dintorni di Sesto. E c’è un consorzio misto, e un’agenzia per lo sviluppo dell’area a nord di Milano che deve gestire quel patrimonio. Hanno creato una società di servizi appositamente studiata per sostenere gli imprenditori che volessero collocare la produzione all’interno delle aree dismesse, ma la loro idea di futuro si ferma a questo. Fino a poco tempo fa il comitato di Tagarelli era ospitato in una vecchia cascina occupata dai cassintegrati Breda e Marelli; la solidarietà era stata immediata, e una riunione in più nei locali rimessi a posto e riscaldati non era un problema. Poi la giunta progressista di Sesto ha avuto urgente bisogno di quella cascina per farne un centro di recupero per malati psichiatrici e hanno buttato fuori tutti, cassintegrati, comitato, familiari e quant’altro.

«C’era la cellula del Pci in fabbrica, erano loro a comandare, non i padroni. A me risultava che il Pci era il partito dei lavoratori, così ho fatto la tessera, la tessera della sezione Ho Chi Min. Se ci fossero anche le formazioni della Nuova Sinistra non mi ricordo, forse Lotta Continua, ma in fabbrica era il Pci. Io mi sentivo già un grande lavoratore appena arrivato dal paesino, puoi immaginarti dopo un anno. Volevo far parte anch’io del partito, ero orgoglioso. E m’ero montato la testa, cercavo di convincere i compagni a fermare il lavoro quando qualcuno stava male, tossivamo, vomitavamo. Però ci spiegavano che era così dappertutto, che poi ci si abituava, che non era questione di respiratori o altro. E dell’amianto non sapevamo nulla. Io andavo anche in sede, per le discussioni. Quand’erano i tempi di Berlinguer qualcosa funzionava, ma fuori dalla fabbrica, solo fuori. Dentro a volte mi toccava anche combattere con i delegati. Si sono svegliati solo quando hanno visto i morti, anche se ce ne sono voluti dieci perché togliessero il macchinone per la saldatura a scintillio».

L’amianto è un minerale, anzi è una famiglia. che comprende sei differenti minerali, tutti nocivi, anche se in misura diversa. Circa l’ottanta per cento dell’amianto viene estratto in Canada e negli Stati Uniti; l’Italia è stata fino agli anni ’80 il principale produttore europeo, con la miniera piemontese di Balangero, per circa 150.000 tonnellate all’anno. È semplice individuare il danno provocato negli organismi dall’amianto: una volta spezzato o bruciato l’amianto si polverizza in particelle minime che respirate vanno a saldarsi con la pleura, formando delle placche che possono ricoprirla quasi per intero. Anche nei polmoni si trovano le tracce dell’amianto; l’organismo infatti si difende avvolgendo con un piccolo guscio di grasso le minuscole particelle di polvere che giungono nei polmoni e un semplice esame istologico può rivelarne la presenza. L’effetto che l’amianto – o asbesto – provoca è l’ingrossamento delle maglie degli alveoli polmonari che smettono di funzionare. In alcuni decessi avvenuti per mesotelioma della pleura – un tumore specifico legato all’amianto – si sono contati fino a dieci milioni di “bastoncelli” di amianto per grammo di tessuto polmonare. Respirare l’amianto significa essere esposti al rischio di morire o soffocati dall’asbestosi o per mesotelioma, una forma tumorale di ingrossamento della pleura che “schiaccia” i polmoni fino a renderli inservibili. Il danno si manifesta a distanza di circa vent’anni in media, in alcuni casi molto più tardi. Entrambe le patologie sono estremamente rare, in assenza di una precisa esposizione all’amianto, circa un caso ogni milione di abitanti. Quanto fa, statisticamente, diciannove morti più quattro malati su ventisei assunti al reparto aste della Breda Fucine?

«M’era stata tolta l’invalidità, dopo la prima chemioterapia. Ho fatto ricorso e ho vinto, due settimane fa. È triste pensare che solo adesso so che cosa fossero venuti a fare i tecnici dello Smal nei nostri reparti. Noi pensavamo alla polvere, al rumore e agli acidi, invece c’era l’amianto e i tumori. Sapevamo di star male, non di essere sottoposti a un lavoro che avrebbe dovuto ucciderci tutti. Il rapporto dei medici era stato consegnato ai dirigenti, ai sindacati, e al comune. A noi nulla e nessuno ci ha detto alcunché. È andata così: un giorno sto male davvero e mi faccio portare al presidio della Ussl per una visita. Lì c’è la dottoressa Bodini che mi deve visitare, ma come mi vede mi chiede se per caso non mi ha già visto nel tal reparto, dove erano venuti a fare un sopralluogo. Le rispondo di sì, che sono Tagarelli e che lavoro al reparto aste. E lei allora ha dovuto spiegarmi che se l’aspettavano, che l’avevano detto, scritto e fatto leggere. Erano passati più di dieci anni intanto».

Per tre volte il Servizio di Medicina Preventiva per gli Ambienti di Lavoro compie dei sopralluoghi alla Breda Fucine. In differenti rapporti segnalano i danni provocati alla salute degli operai dall’amianto, dal cromo e dal nichel; stigmatizzano l’assenza di aspiratori, il rumore oltre le soglie massime consentite, l’inesistente prevenzione delle malattie, il pressappochismo del “mezzo litro di latte”. Non accade nulla. Dieci anni dopo s’inizia la fila dei malati e dei morti. Chiudono il reparto già che stanno chiudendo tutta la Breda, ma mettono in chiaro: niente sostanze nocive nella nostra fabbrica. Per fortuna i dirigenti non sempre sono intelligenti. Tutti i documenti riguardanti la questione del “reparto mattatoio” erano scomparsi, ma loro hanno assunto come custode uno degli operai di quel reparto e son saltati fuori i rapporti medici, le bolle di acquisto dei materiali e quant’altro allora era stato fermamente negato. Con quelle fotocopie va avanti il comitato. A luglio hanno preparato una lapide per i loro compagni e l’hanno portata in corteo per le vie di Sesto. Durante un breve comizio ha parlato l’ultimo arrivato, un barese dal forte accento. Anche a lui gli han trovato un tumore, ma nel suo dialetto di scarsa scolarità il latino viene tradotto in base all’esperienza concreta e il tumore diventa “timore”. Anch’io avevo un timore – urla – ma adesso che siamo tutti qui lottiamo perché lo non ce l’abbia più quel timore . Qualche professore vuole farsi avanti per correggerlo?

«Qualche dirigente, dopo che sono arrivate le prime lettere, m’ha pure chiamato a casa. L’ingegner Pattarini, mi ricordo, aveva ricevuto una lettera dalla pretura di Milano e mi ha telefonato. M’ha detto: come si permette? ma cosa vuol pretendere lei? Quando è venuto a Milano le abbiamo dato anche la casa Breda! E io gli ho risposto che era un imbecille, che se aveva ricevuto una lettera dall’avvocato era con l’avvocato che doveva parlare, non con me per mettermi paura, perché comunque a uno nella mia condizione di paura ne rimane pochina. Loro non vogliono ammettere che lì, in quel reparto, ci fosse l’amianto. Come facciano non so, dovrebbero avere vergogna almeno. Ma non è così. Morirò? Va bene, però io pure se rimango senza capelli, se divento brutto, un mostro, io questa soddisfazione alla Breda non gliela do. Morirò come sono morti gli altri, ma sul lavoro, e la lotta gliela lascio in eredità ai miei figli, devono andare avanti anche loro. Mi ricordo quand’è morto Franco Camporeale, che mi sono preso paura davvero, perché lavorava proprio di fianco a me. In Breda c’era un accordo che, dopo vent’anni di lavoro, ti danno un premio di dieci milioni. A Franchino gli mancavano tre mesi per fare vent’anni quand’è morto, e il premio non glielo hanno mica dato. E allora noi abbiamo fatto una colletta e glieli abbiamo dati noi i dieci milioni».

Michele Michelino, che è il delegato Cgil più radiato della storia del sindacato, ripete sempre una frase da sussidiario: se un uomo causa la morte di un altro questo si chiama omicidio, se però quell’uomo era a conoscenza degli effetti della sua azione allora si chiama assassinio, e quando l’assassinio è di molti uomini si chiama strage. È a questa sua logica che si deve l’esistenza di un comitato per la verità sulle morti in Breda, un comitato che insegna la differenza che passa tra morti sul lavoro e morti di lavoro e una certa ripugnanza a considerare conclusa la storia operaia.


CONCLUSIONE PROVVISORIA… 

Dal 1998 ad oggi bisogna aggiornare i dati: allora contavamo 31 morti, adesso ne contiamo ormai 70: tutti compagni di lavoro che, tra i 45 e i 60 anni, se ne sono andati… il Gobbo di cui si parla qui sopra ha rischiato di morire, ma per ora ce l’ha fatta; mentre Giambattista Tagarelli, quello che ci ha raccontato la sua storia in queste pagine, no, non c’è riuscito.
Intanto è arrivato a conclusione un processo per 6 morti (e un ammalato grave) che qualcuno proprio avrebbe preferito insabbiare… Abbiamo dovuto fare diverse manifestazioni perché non ci fosse archiviato, abbiamo dovuto impegnarci fortemente a raccogliere i non pochi soldi necessari per poterlo affrontare adeguatamente; all’undicesima udienza la Pubblica Accusa ha chiesto… l’assoluzione degli accusati – due vecchi dirigenti Breda ultraottantenni scelti come improbabili capri espiatori…
E finalmente nell’ultima udienza, il 13 febbraio scorso il giudice ha assolto i due imputati perché il fatto non sussiste: ormai ce lo aspettavamo, visto l’andazzo complessivo… ma in quella trentina di presenti (tra ex operai Breda e familiari dei morti) le parole “assolti perché il fatto non sussiste”, pronunciate da un giudice pallidissimo, tesissimo (e frettolosissimo nell’andarsene subito dopo), sono suonate come un tremendo schiaffone, ingiusto ed offensivo. Tra i presenti, c’erano cinque ex operai Breda ammalati di tumore (per un totale di una decina di interventi chirurgici); uno pure infartuato, che in quel frangente ha rischiato un nuovo infarto; in più c’erano anche tre operai a cui erano state riscontrate le placche pleuriche. È forse diventato per qualche istante famoso l’unico operaio ammalato parte civile nel processo, che era venuto ad assistere alla sentenza con il sacchettino dei pigiama + asciugatoio + spazzolino + ciabatte, con il quale subito dopo la sentenza è entrato in ospedale, dove si sarebbe dovuto decidere se intervenire chirurgicamente sul suo tumore alla prostata… intervistato da una televisione, ha suscitato simpatia in tutti i telespettatori che quel giorno hanno avuto la sorte di vederlo ed ascoltarlo.
Checos'è successonell'oretta successiva alla sentenza, inquell'aula di tribunale, è stato raccontato su molti quotidiani, il giorno dopo; possono forse vagamente aiutare a capire le foto riprodotte in questa  pagina. 

Su questa assoluzione non così imprevista, c’è da annotare soltanto che questo processo è stato il punto di arrivo di 19 denunce diverse, tra cui 6 riguardanti lavoratori morti per mesotelioma della pleura. Solo 7 denunce si sono salvatedall'archiviazione (a suon di presidi fatti per evitare l’archiviazione totale); ma alla fine, cinque anni dopo, ci siamo trovati con un procedimento giudiziario aperto contro due soli responsabili (presidenti dei consigli d’amministrazione; e dove sono finiti gli amministratori delegati, i direttori di produzione, o i responsabili della salute in fabbrica? come mai il giudice istruttore non è riuscito ad identificare neppure il loro nome?); e soprattutto ci siamo accorti che dal processo, impostato da noi soprattutto contro la nocività dell’amianto, erano stati debitamente sfilati tutti i morti per mesotelioma della pleura, l’unico tumore che avrebbe certamente portato alla condanna degli imputati.
Aggiungiamo infine che ormai risulta chiaro che l’amianto è concausa di molti altri tumori, e non solo all’apparato respiratorio; però contro questa affermazione – che nessun esperto non prezzolato si sentirebbe di negare – è stato aperto un fuoco di sbarramento a livello internazionale, per evitare che l’industria dell’amianto (e l’industria che l’amianto ha largamente utilizzato) si ritrovi costretta ad indennizzare una marea di morti: basti sapere che si prevedono almeno 30mila morti in Europa a causa dell’amianto entro il 2030… Insomma, una sentenza assolutoria era assolutamente necessaria… purtroppo per noi!

Come andrà a finire, ci vorrà ancora tempo per poterlo raccontare. Di sicuro, per noi non finisce qui… Adesso posso solo esprimere in pochissime parole una dolorosissima percezione che ha gradualmente preso forma in me, seguendo, udienza per udienza, tutte le fasi processuali, dopo aver sentito ripetutamente e spesso accuratamente descrivere le condizioni di lavoro a cui eravamo sottoposti: lì, nell’aula del tribunale, sono state raccolte – una dopo l’altra – tutte le prove che non possono non farmi dire, con profonda rabbia, che siamo stati esposti alla morte! 

LUIGI CONSONNI

 

NB – In queste pagine ho ripreso alcune delle pagine finali di un libro intitolato “La lotta paga” (edizione Il Papiro – giugno 1998) nel quale, assieme a un altro carissimo compagno di lavoro, abbiamo ricostruito la cronistoria della lotta degli operai della Breda Fucine negli ultimi 9 anni di vita della fabbrica. “La lotta paga” è possibile scaricarlo qui.

 

Da comitatodifesasalutessg