Al-Nakba: settanta anni dopo

15 maggio 2018

 

 

Il quindici maggio di settanta anni fa nasceva lo Stato di Israele, evento considerato dai Palestinesi Al-Nakba (la catastrofe). La sua nascita ha rappresentato il culmine di un lungo percorso, iniziato alla fine del Primo conflitto mondiale, in conseguenza dell’implosione dell’Impero ottomano, proseguito nei trent’anni successivi nel corso dei quali la Potenza mandataria britannica ha con fermo intento operato inflessibilmente perché l’apparato politico e militare del futuro Stato assumesse i tratti di un’entità indipendente, foyer delle comunità ebraiche esistenti nel mondo, principalmente in Europa. Tale ben approntata operazione si è contraddistinta nel suo negativo corso anche per la spietata repressione esercitata dalle forze britanniche sulla comunità palestinese, destinataria a quel tempo delle stesse forme di abuso e di prevaricazione che rivediamo oggi, perpetrate dalla Potenza sionista (demolizione di immobili, arresti arbitrari, confisca di territori e via dicendo).

Ciò fa apparire con evidenza come il dramma palestinese che dal 1948 avvelena il rapporto tra l’Occidente ed il mondo arabo sia una diretta filiazione del colonialismo europeo. E’ principalmente sulla Potenza imperiale britannica che incombe la principale responsabilità della creazione di una crisi che ha raggiunto limiti esplosivi, resi tanto più cruenti quanto la possibilità di una soluzione di questa tragedia appare sempre più remota, alla luce della progressiva chiusura di ogni canale politico.

La realtà sotto i nostri occhi è che ci si trova confrontati a una situazione che fa rivivere sulle sponde del Mediterraneo l’esperienza atroce dell’apartheid sud-africano, anch’essa esportata colà dal razzismo europeo. Si è in effetti in presenza di una sindrome dagli inconfondibili contorni coloniali dove un popolo viene espulso dal territorio di appartenenza andando a popolare i campi profughi sparsi un po’ dappertutto nei Paesi della regione, in primis Giordania, Libano, Siria, Iraq; milioni di palestinesi trasformati in esseri senza patria, in uno stato di spoliazione della propria dignità di esseri umani. Tale avvilente condizione è parimenti vissuta da coloro che teoricamente si trovano in patria, che siano quelli che marciscono nel lager a cielo aperto di Gaza o quelli che subiscono abusi di ogni genere nei territori occupati di Gerusalemme est e di Cisgiordania.

Tutto questo avviene in una persistente violazione della legalità internazionale se si pensa che più di dieci risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, come tali vincolanti, sono rimaste del tutto disattese dal Governo di Tel Aviv senza alcuna effettiva reazione da parte della impotente comunità internazionale, beneficiando della complicità USA.

La vittoria elettorale di Trump ha ulteriormente aggravato il quadro complessivo, ponendo fine al ruolo più o meno illusorio svolto dagli Stati Uniti di mediazione in quello che, ripeto, non è un conflitto, termine all’occorrenza improprio, ma una vera e propria impresa coloniale i cui tratti si caratterizzano non solo per la carica di dominazione che porta con sé ma anche per il razzismo che la contraddistingue se si considera che il popolo palestinese continua ad essere esposto ad ogni forma di soprusi e sopraffazioni, trattato come se fosse una sottospecie.

In questi giorni la massa di inermi giovani, falcidiati dalle armi israeliane, più di cento abbattuti alla frontiera di Gaza con Israele dal 30 marzo, quando sono iniziate ogni venerdì le manifestazioni di protesta, ha rivendicato con disperata forza il Diritto al Ritorno, il diritto a ritornare nelle terre di loro appartenenza, dalle quali 750.000 Palestinesi sono stati brutalmente espulsi settant’anni fa.

Il fatto che questo avvenga, a decenni di distanza, fa capire come la lotta del popolo palestinese non terminerà mai e che essa prenderà fine solo quando i diritti violati saranno stati riparati. L’aspirazione umana a vedere riconosciuti i fondamentali diritti a una esistenza degna di essere vissuta non potrà mai essere soppressa.

In questi tragici frangenti dove la furia repressiva israeliana si abbatte su civili palestinesi in maniera mai vista dall’ultima aggressione contro Gaza dell’estate 2014, l’Europa dovrebbe svolgere il ruolo che le spetterebbe alla luce dei suoi coinvolgimenti storici nella regione. La decisione di disertare la cerimonia di celebrazione del trasferimento dell’Ambasciata USA a Gerusalemme, considerata dall’Amministrazione Trump capitale di Israele, sancendo in tal modo la fine di ogni prospettiva di successo della soluzione dei due Stati, è indubbiamente un fatto positivo.

Ma il disaccordo dell’Unione europea non può finire qui, se si tiene presente che fa seguito a un altro disaccordo ovverossia quello provocato dall’altra insensata decisione di Trump di ripudiare l’accordo nucleare con l’Iran del 2015.

Sarà dunque importante vedere quale sarà il seguito dell’atteggiamento europeo sui due dossier sopra descritti, anche se a nostro parere la speranza di iniziative incisive da parte di Paesi legati a doppio filo con la super-Potenza americana rimane più fittizia che reale.

 

 

Per ora quello che possiamo fare è manifestare con sdegno la nostra condanna sui terribili eccidi che si sono consumati in questi giorni a Gaza che non possono non turbare le coscienze del mondo civile; massacri che hanno peraltro turbato alcuni organi di stampa israeliana dove sono apparsi alcuni editoriali nei quali, significativamente, si attira l’attenzione sul fatto che proprio nel momento in cui l’euforia caratterizza lo stato d’animo di coloro che gioiscono per l’approdo cui sono giunti, ad immagine dei gioiosi partecipanti alla festa presso la nuova sede diplomatica americana, si dovrebbe manifestare preoccupazione (“concern”) per le conseguenze derivanti da una situazione dove il contrasto tra chi muore e soffre per sue legittime aspirazioni e chi, con inumana indifferenza, si rallegra per i trionfi conseguiti è troppo grande per non suscitare apprensioni e timori. Espressioni probabilmente dettate dal senso di colpa per eventi così tragicamente impattanti, che resteranno indelebilmente impressi nella memoria collettiva palestinese, fonte di inestinguibile risentimento. Le menti più sensibili in Israele sono evidentemente consapevoli di cosa questo possa significare.

 

 

Angelo Travaglini, ex Diplomatico – Membro del Comitato Scientifico del CIVG