A che punto è la guerra?

                    

                Poco più di un secolo fa, nell’ottobre 1915, il governo inglese guidato dal liberale Herbert Asquith si dichiarò disponibile ad accogliere qualsiasi rivendicazione territoriale dello sceriffo della Mecca, Husayn Bin Alì, pur di trascinare in guerra contro la Turchia buona parte delle tribù arabe. Fu così che al termine delle trattative nell’aprile-maggio 1916, l’alto commissario inglese in Egitto sir Henry McMahon,  diede il benestare, in caso di vittoria sui turchi, alla nascita di un grande Stato arabo indipendente comprendente la Turchia meridionale, parte della Siria, la Mesopotamia e tutta la penisola arabica ad eccezione di Aden. Poco dopo, il 5 giugno 1916, per ottemperare a quell’accordo,  lo sceriffo Husayn chiamò tutti gli arabi alla rivolta contro la Turchia.

            Ma nell’ottobre 1915 iniziarono anche colloqui segreti fra Inghilterra e Francia per mettersi d’accordo sulla spartizione dei possedimenti ottomani del Medio Oriente, cioè di quegli stessi territori che nel frattempo McMahon prometteva agli arabi. I francesi delegarono le trattative al diplomatico François Georges-Picot, collaboratore per il Medio Oriente del ministro degli Esteri Aristide Briand; mentre per gli inglesi il ministro della Guerra lord Herbert Kitchener nominò sir Mark Sykes, suo uomo di fiducia. Alla fine di aprile del 1916 l’accordo, che teneva conto anche delle rivendicazioni della Russia zarista sull’Anatolia, era fatto, tutti i possedimenti ottomani spartiti e assegnati alle potenze imperialiste dell’Intesa.

            Solo per la Palestina fu prevista in un primo tempo una “amministrazione internazionale”. Ma un altro padrone si stava prepotentemente proponendo per occupare quel territorio. Dopo anni di sempre più potenti pressioni del sionismo internazionale sulla Gran Bretagna e con l'intenso lavorio di membri ebraici interni ai governi Asquith e Lloyd George, il ministro degli Esteri sir Arthur James Balfour scrisse infine (2 novembre 1917) al maggior rappresentante della comunità ebraica inglese, il banchiere lord Walter Rothschild, la famosa dichiarazione: “Il governo di Sua Maestà vede con favore la creazione di una patria per il popolo ebreo in Palestina, e porrà in atto i suoi migliori uffici allo scopo di raggiungere questo obiettivo, con la chiara intesa che nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebree esistenti in Palestina, o i diritti e la condizione politica goduta dagli ebrei in ogni altro paese”.  A guerra conclusa,con il trattato di Sèvres, il 10 agosto 1920, la Palestina fu affidata all'amministrazione britannica.

            Cinque giorni dopo la “dichiarazione Balfour”, il 7 novembre 1917, i bolscevichi presero il potere in Russia. Negli archivi del ministero degli Esteri zarista trovarono copia dell'accordo segreto Sykes-Picot e decisero di renderlo di pubblico dominio. Gli arabi vennero così a sapere di essere stati truffati. Se avessero aderito all'appello turco e avessero cambiato alleato, forse la storia sarebbe andata diversamente; invece, giudicando i turchi il nemico principale sulla strada dell'indipendenza, proseguirono la guerra a fianco degli inglesi, illudendosi fino alla Conferenza di pace del 1919 a Parigi di poter ottenere anche solo alcune delle promesse fatte da McMahon a Husayn Bin Alì. Questo assetto del Medio Oriente previsto dall'accordo segreto Sykes-Picot e messo in atto con successivi trattati, con l'invenzione di Stati scaturiti dalla fantasia imperialista occidentale (Iraq, Libano, Giordania, Kuwait, Israele …), con le sue drammatiche e sanguinose contraddizioni, colpi di stato, guerre, invasioni, annessioni, interventi militari, è durato per una settantina d'anni.

            “La più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”, come Putin definì nel 2005 l'agonia e la dissoluzione dell'URSS, è l'evento che scatena una nuova fase imperialista.In Medio Oriente, mentre Washington continua a sostenere Israele e le monarchie conservatrici del Golfo, l'ultimo presidente dell'URSS con la voglia di Coca-Cola stampata in fronte abbandona al loro destino i suoi tradizionali alleati, Siria, Iraq e Palestina. Non solo. Il ministro degli Esteri di Gorbaciov, Eduard Shevardnadze, afferma all'ONU (25 settembre 1990)  che il mondo deve reagire duramente contro Saddam Hussein che con l'invasione del Kuwait attenta al nuovo, pacifico ordine mondiale che USA e URSS in stretta collaborazione stanno costruendo.

            Termina così la terza guerra mondiale conosciuta come “guerra fredda”, quella combattuta fra il comunismo e il “mondo libero”, e i vincitori intravvedono la possibilità di controllare non solo tutto il Medio Oriente e i paesi satelliti dell'URSS, ma la Russia stessa e infine il mondo intero. Questa fase neo-imperialista, questa nuova guerra mondiale, la quarta, che militarmente inizia con la “liberazione” del Kuwait (17 gennaio-28 febbraio 1991), è tuttora in pieno svolgimento sui due fronti principali: in ordine di importanza, ma strettamente collegati fra loro, l'Est europeo e il Medio Oriente.

            Un mese dopo la “liberazione” del Kuwait si scioglie il Patto di Varsavia, alleanza militare difensiva  fra i paesi europei del campo comunista nata nel 1955 in contrapposizione alla NATO già funzionante dal 1949. Nel 1999, da unione difensiva la NATO  si trasforma ufficialmente in forza d'intervento impiegabile anche al di fuori dei territori dell'Alleanza, e poco dopo entrano entusiasticamente a farne parte gli ex Paesi del Patto di Varsavia, i tre Baltici, Albania, Croazia, Slovenia e pochi mesi fa anche il Montenegro. Le poche difficoltà che la NATO incontra per arrivare ai confini russi vengono agevolmente superate attraverso cospicui finanziamenti a rivoluzioni floreali (“delle rose” in Georgia nel 2003) e colorate (“arancione” in Ucraina nel 2004); con l'intervento militare diretto, in nome dell'“ingerenza umanitaria”, in Jugoslavia (1999) a sostegno dei narcoterroristi dell'UCK spacciati per patrioti kosovari. O, infine, con l'aiuto militare a formazioni dichiaratamente naziste che governano a Kiev dopo il colpo di stato (Ucraina 2014).

            Anche in Medio Oriente non sembravano sussistere particolari ostacoli allo smantellamento dei regimi socialisti guidati dal Baath (Iraq, Siria). Anche se l'allora capo di stato maggiore USA, il bugiardo seriale Colin Powell, definì l'Iraq “la quarta potenza militare del mondo”, l'esercito di Saddam fu facilmente cacciato dal Kuwait. Le truppe di Schwarzkopf avrebbero potuto arrivare in pochi giorni a Baghdad senza incontrare apprezzabile resistenza, nonostante Saddam si fosse tenuto di riserva le truppe scelte della Guardia Repubblicana. Ma il 23 febbraio 1991, il giorno prima dell'inizio dell'offensiva finale terrestre delle truppe anglo-statunitensi, il maresciallo Dmitrij Jazov, veterano della Grande Guerra Patriottica nonché ministro della Difesa sovietico espresse pubblicamente il dissenso suo e dei vertici militari verso la politica estera filo-USA di Gorbaciov, sia per quanto riguarda l'Iraq, sia sulle questioni del disarmo internazionale. Tre giorni dopo, mentre l'esercito iracheno abbandonava Kuwait City, e tentava di ritirarsi sotto il fuoco implacabile dell'aviazione della coalizione “sulle posizioni tenute prima del 1° agosto 1990”, come ordinato dal suo governo e prescritto dalla risoluzione ONU 660, il portavoce del ministero degli Esteri sovietico, Valeri Ciurkin, ammoniva gli Stati Uniti: “L'ONU non ha dato il mandato di rovesciare Saddam Hussein”.

            Non furono però il rispetto per le risoluzioni dell'ONU e il timido ammonimento sovietico a indurre il presidente USA Bush sr a fermare le truppe della coalizione a 150 miglia da Baghdad. La maggiore preoccupazione di Bush sr, dopo le dichiarazioni di Jazov e Ciurkin, era che i “conservatori” riuscissero a bloccare il processo di decomposizione dell'Unione Sovietica e il passaggio dallo statalismo al capitalismo. Ad arrivare a Baghdad ci riuscirà 12 anni dopo Bush jr; a portare velocemente a termine il percorso verso l'economia di mercato ci penserà il successore di Gorbaciov, il primo presidente della Federazione Russa, l'alcolizzato ex comunista Boris Eltsin, con tagli drastici delle spese militari che declassano enormemente il potenziale bellico del Paese, privatizzazioni selvagge, svendita del patrimonio pubblico e con una feroce politica di macelleria sociale degna del periodo zarista.

            La guerra per la “liberazione” del Kuwait è il canto del cigno per l'ONU, organizzazione concepita durante la seconda guerra mondiale dal presidente USA F.D. Roosevelt allo scopo di offrire  una patente di legittimità ad aggressioni militari a difesa degli interessi degli Stati Uniti nel mondo. Nell'Assemblea Generale vi sono rappresentati tutti gli Stati, ma poi le decisioni importanti, vincolanti, le prendono i cinque  Stati membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (CdS) più dieci membri a rotazione: insomma uno non vale uno. Pure la rappresentatività è un po' farlocca: basti ricordare che la Repubblica Popolare Cinese fu ammessa nel CdS solo nel 1971 perché agli Stati Uniti e ai suoi alleati conveniva la presenza dei loro amici di Taiwan. Anche le risoluzioni del CdS risultano vincolanti solo per alcuni, e non per altri. E' il caso di Israele che non ha mai rispettato una risoluzione, dicasi una, che lo riguarda, ma non è stato mai né sanzionato né considerato uno Stato fuorilegge, anzi.

            Tuttavia, per la “liberazione” del Kuwait agli USA occorre ancora il mandato ONU. Solo una coalizione col bollino blu dell'ONU poteva indurre alla mobilitazione altri Stati arabi, desiderosi di attaccare l'Iraq baathista per neutralizzarne le ambizioni di egemonia regionale e per ridimensionare la popolarità di cui godeva Saddam Hussein presso le masse arabe dei loro Paesi. Solo un mandato ONU poteva in minima parte giustificare agli occhi dei musulmani il consenso/offerta dell'Arabia Saudita all'occupazione e all'uso di buona parte della sua terra, sacra per l'Islam, come base per le forze armate occidentali per le operazioni Desert Shield, Desert Storm e Desert Sabre. Dicono le cronache che il dissenso/scontro fra Osama Bin Laden e la casa reale saudita sia nato proprio su questo specifico punto; per Bin Laden dovevano essere solo delle forze armate arabe a combattere Saddam Hussein. Solo una guerra promossa dall'ONU poteva infine permettere a nazioni come l'Italia di partecipare alla coalizione anti-irachena aggirando le disposizioni costituzionali che ripudiano la guerra come metodo per la risoluzione delle controversie internazionali. Per l'Italia era la prima volta di un intervento militare offensivo dalla seconda guerra mondiale, e per questo motivo la guerra contro l'Iraq fu etichettata come “operazione di polizia internazionale”. 

            Il certificato di morte dell'ONU viene redatto con la risoluzione 1368 approvata il giorno dopo gli eventi dell'11 settembre 2001, in cui si riconosce agli Stati Uniti, come previsto dalla Carta, “il diritto all'autodifesa”. In sostanza l'ONU rinuncia a giocare un qualsiasi ruolo e lascia mano libera agli Stati Uniti. La risoluzione infatti calza a pennello per le esigenze imperiali degli USA: “(il CdS) si appella a tutti gli Stati al fine di operare insieme urgentemente per consegnare alla giustizia gli esecutori, gli organizzatori e i mandanti di questi attacchi terroristici, e sottolinea che coloro i quali sono responsabili di aiutare, sostenere e dare rifugio agli esecutori, organizzatori e mandanti di questi atti ne dovranno rispondere”. Due giorni dopo il Congresso degli Stati Uniti con un solo voto contrario autorizza il presidente Bush jr “a ricorrere a ogni azione necessaria contro qualunque Stato, organizzazione o persona che, a suo giudizio, abbia preparato, autorizzato, eseguito o facilitato gli attacchi terroristici dell'11 settembre o che abbia protetto simili organizzazioni o persone”. Già il 16 settembre i complici del terrorismo sono ben individuati dal segretario alla Difesa USA Donald Rumsfeld: “Un certo numero di Paesi ospita, tollera, finanzia o sostiene gruppi terroristici ...La lista degli Stati canaglia è nota: Iran, Iraq, Siria, Libia, Corea del Nord. Dovranno essere questi Paesi, con le loro azioni, a tagliare ogni rapporto con il terrorismo, altrimenti diventeranno loro stessi obiettivi di azioni di ritorsione politica, economica e militare”. Ormai l'ONU ha passato la mano, è definitivamente fuori gioco, non c'è più bisogno di bollini e caschi blu, ci sono gli USA e la NATO; e Il 7 ottobre gli Stati Uniti attaccano l'Afghanistan colpevole di non aver consegnato loro Bin Laden, ritenuto subito il responsabile degli attacchi alle Twin Towers ...

            Questa nuova fase imperialista sotterra anche uno dei più radicati luoghi comuni sul Medio Oriente. La cosiddetta “questione palestinese” non è più la chiave per la soluzione dei numerosi contenziosi creati in Medio Oriente da quasi due secoli di imperialismo. In realtà non lo è mai stata e non lo è di certo al giorno d'oggi. Non si capisce come Abu Mazen possa affermare “con tutta certezza, che la fine dell'occupazione israeliana della Palestina sarebbe la chiave per debellare l'ISIS, Al Qaeda e gruppi simili” (Il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2017). La Storia ci dice che i dirigenti sionisti fin dalla nascita del loro movimento avevano stabilito con precisione la soluzione finale da dare al problema degli “arabi di Palestina”: progressivo spossessamento e acquisizione a coloni sionisti delle loro terre, pulizia etnica, e trasferimento della popolazione nel loro paese naturale, cioè la Giordania o a scelta altri Stati arabi.

            Le poche, ma clamorose sconfitte dei grandi eserciti coloniali sono sempre avvenute per la sottovalutazione da parte dei loro comandanti dell'intelligenza e delle capacità militari del nemico. Vuoi perché certi di avere armi nettamente più moderne e sofisticate rispetto a quelle dell'avversario; vuoi perché convinti della superiorità razziale dell'uomo bianco rispetto a popoli definiti “selvaggi”. Si ricordi il generale Oreste Baratieri che ingaggiò lo scontro con gli abissini di Menelik senza avere la necessaria conoscenza del terreno della battaglia, della consistenza e della disposizione delle forze nemiche (Adua, 1° marzo 1896). Nessuno degli inviati occidentali, il 29 marzo 2003, con le truppe USA quasi in vista di Baghdad, prende in seria considerazione un annuncio dell'allora vicepresidente iracheno, il kurdo Taha Yassin Ramadan: “Nei prossimi giorni i martiri saranno parte integrante della nostra strategia. Qualsiasi metodo è lecito quando si tratta di uccidere il nemico. Gli Stati Uniti stanno trasformando questo mondo in un pianeta di martiri che si rivolgerà contro di loro; migliaia di volontari si stanno unendo a noi per difendere l'Iraq con questo tipo di lotta”. Nello stesso tempo a Najaf un uomo si fa esplodere a bordo di un taxi a un posto di blocco dei marines: è Alì Hammedi Al Namani, il primo uomo-bomba, ed è un ufficiale dell'esercito iracheno. Dopo qualche giorno è la volta di una donna incinta che si fa esplodere a un posto di blocco a Haditha. E mentre Tareq Aziz ribadisce che stanno confluendo in Iraq almeno  altri quattromila volontari votati al martirio, la propaganda USA prevede invece per i “liberatori dalla tirannia” un'accoglienza festosa a Baghdad, con sventolio di bandierine a stelle e strisce confezionate nottetempo clandestinamente dalle donne irachene.

            A frenare i progetti imperiali degli Stati Uniti è indubbiamente la resistenza armata dei popoli arabi e musulmani che non hanno alcuna intenzione di importare nei loro Paesi la “democrazia” made in USA; quella dei Talebani in Afghanistan impegnati da 16 anni contro l'occupazione della NATO, e del Donbass e della Crimea che non vogliono essere occupati dalla NATO. Ma ciò che scombina i piani per un “nuovo secolo americano” è il sorprendente, nuovo protagonismo internazionale della Russia. Il merito di aver risollevato il Paese, sotto tutti i punti di vista, dal declino in cui era stato trascinato dal suo predecessore Eltsin, va tutto a Vladimir Putin che ormai da anni detiene indici di gradimento popolare inarrivabili per qualsiasi leader occidentale.

            Questo scontro fra USA-UE-NATO e Russia non è la Guerra Fredda 2. Innanzitutto perché non esiste più la concorrenza fra due modelli sociali antagonisti, anche se i toni propagandistici dei più scalmanati opinionisti occidentali (Bernard-Henri Lévy per fare un nome a caso, BHL come lo chiamano in Francia) ricordano i tempi del confronto comunismo/capitalismo. E diversamente dalla odierna Russia, l'URSS si limitava ad intervenire militarmente solo in alcuni Paesi confinanti, di “sua competenza”, o comunque governati da comunisti (Afghanistan). Lo scontro non è più solo fra alleati dei due campi come succedeva durante la “guerra fredda” (1945-1990), ma le forze armate delle due superpotenze sempre più si ritrovano faccia a faccia nel supportare i loro rispettivi alleati. Infine non  si può parlare di scontro fra imperialismi rivali: basta confrontare sulla carta geografica le posizioni della NATO nel 1990 e quelle attuali per rendersi conto di chi è l'imperialista e di chi invece difende il proprio spazio vitale.  

            Dal 2011, la Russia inizia una grande controffensiva diplomatica, economica e militare per bloccare l'espansionismo della NATO e rompere l'accerchiamento che si andava configurando anche sul lato sud, in Medio Oriente. Nel settembre 2015 interviene per salvare il suo storico alleato Assad e non perdere l'unica base navale russa nel Mediterraneo, quella di Tartus in Siria. Invece, gli Stati Uniti intervengono in Medio Oriente ufficialmente per debellare il terrorismo islamico, ma già dal 2014 gira in rete una foto “virale” che immortala il senatore USA John McCain a colloquio con Abu Bakr Al Baghdadi, futuro califfo dell'ISIS. Gli Stati Uniti, che già in passato hanno frequentato, finanziato e si sono avvalsi delle prestazioni di Al Qaeda per cacciare i sovietici dall'Afghanistan, commissionano all'ISIS la caduta dell'unico Stato laico e socialista rimasto in Medio Oriente: la Siria. Ecco perché le basi e il quartier generale dell'ISIS in Medio Oriente subiscono solo “blandi”, “simbolici” bombardamenti da parte dell'aviazione USA, come anche la stampa obamiana ammette. Questa sceneggiata cessa con l'intervento militare della Russia, che in casa propria ha sempre combattuto e stroncato brutalmente il terrorismo islamico in qualsiasi modo travestito (Cecenia). Quando l'aviazione russa inizia a colpire seriamente le ben note postazioni dell'ISIS in Siria, costringe gli Stati Uniti a fare altrettanto per non perdere la faccia, e a privilegiare un altro alleato: dagli ormai bruciati askari dell'ISIS al clan kurdo mafioso e filosionista di Masoud Barzani.

            Sul piano delle alleanze, la Russia rinsalda i vincoli militari con l'Iran: gli aerei russi che bombardano le postazioni ISIS in Siria partono anche da basi iraniane, e le marine dei due Paesi hanno compiuto qualche mese fa esercitazioni congiunte nel Mar Caspio. In Iraq, altro suo storico alleato, la Russia punta sul vicepresidente Nuri Al Maliki, probabile candidato forte delle elezioni politiche della prossima primavera. In Libia Mosca si è legata al generale Haftar che ne controlla la parte orientale, la Cirenaica; e per annullare l'effetto delle sanzioni USA e UE, si sta proponendo con buoni risultati come partner commerciale in tutti i Paesi arabi, compresi quelli tradizionalmente in area USA come gli Emirati del Golfo.

             La vittoria militare dell'asse sciita appoggiato dalla Russia che ha bloccato “l'estensione della democrazia alle zone del mondo arabo e musulmano che minacciano la civilizzazione liberale” provoca sconquassi nelle certezze degli analisti e getta nello sconforto i paladini dei “diritti umani” come BHL che, per un dovere di riconoscenza verso gli alleati kurdi, invoca un'altra guerra contro l'Iraq che con i suoi blindati ha conquistato Kirkuk costringendo i peshmerga a ritirarsi. Per la maggior parte dei commentatori, la responsabilità della sconfitta ricade sulla precedente amministrazione USA. Il vincitore del premio Nobel per la Pace preventivo a prescindere, viene accusato anche da parte di ormai ex oltranzisti obamiani di una politica estera balbettante, di dilettantismo nel gestire le guerre, di accondiscendenza verso i nemici dell'Occidente come l'Iran.

            In un articolo intitolato Le guerre inutili del Medio Oriente e le apparenti vittorie degli USA pubblicato sul Corriere della Sera del 23 luglio scorso,  Sergio Romano  liquida le guerre attuali come “guerre inutili” per  gli Stati Uniti definiti “il Paese più bellicoso e maggiormente incline ai conflitti” che però “non ha veramente vinto alcune delle sue guerre maggiori” (Corea, Vietnam, Iraq); “una democrazia militare in cui la ricchezza finanziaria, i progressi della scienza e quelli delle nuove tecnologie hanno creato il più raffinato e micidiale degli arsenali”, ma che non può vincere una “guerra asimmetrica in cui il nemico degli Stati Uniti ricorre ad armi di cui l'America non può servirsi: l'uso del soldato come bomba vivente, quello della popolazione civile come scudo umano, il massacro dei prigionieri, la distruzione del patrimonio culturale, gli attentati terroristici  nelle retrovie del nemico”, Alla fine Romano si arrende: “Confesso di non sapere come sia possibile uscire da questo vicolo cieco in cui l'umanità del ventunesimo secolo sembra essere precipitata. I nemici esistono e devono essere affrontati, come nel caso dell'ISIS, con fermezza. Ma qual è oggi il senso e l'utilità di guerre che non possono essere vinte?”.

            E' difficile a questo punto fare previsioni perché la matassa è sempre più aggrovigliata, ma ci si può provare partendo dalle  certezze che questo finale di round in Medio Oriente ci sta lasciando. E' stata distrutta la struttura politica dell'ISIS sul territorio, il Califfato non esiste materialmente più, i combattenti stranieri hanno in buona parte lasciato il Medio Oriente, ma è probabile che quelli rimasti, la cui consistenza si ignora, si riorganizzino per continuare la lotta con guerriglia e attentati. La spartizione dei territori del Califfato non sarà indolore, i confini degli Stati vecchi e nuovi, saranno quelli deterrminati dal posizionamento degli eserciti sul campo. Comunque vada, i confini del Medio Oriente subiranno modifiche che a loro volta provocheranno ulteriori tensioni e contraddizioni. Kirkuk ne è solo l'avvisaglia.

            La Russia, grazie all'accordo stipulato con Bashar, per la prima volta si installa stabilmente con basi militari in Medio Oriente e diventa punto di riferimento per la filiera sciita, da Teheran agli Hezbollah libanesi. Ma grazie all'alleanza con Haftar, che è a sua volta protetto da Al Sisi, assume un ruolo politico di primo piano anche nel Mediterraneo. 

            Gli Stati Uniti hanno subito in Medio Oriente una inaspettata battuta d'arresto, ma non per questo desisteranno dai loro obiettivi di predominio mondiale. Dopo la Siria, quale sarà il Paese in cui gli Stati Uniti tenteranno un cambiamento di regime? Il netto favorito sembrerebbe la Corea del Nord: mentre questo testo viene scritto una grande flotta USA naviga nel Pacifico dirigendosi minacciosamente  verso il Mar del Giappone. Sarà guerra vera, nucleare o convenzionale con nucleare “tattico”, o gli USA vogliono solo constatare sino a dove Cina e Russia sono disposti a difendere un loro teorico “alleato”? Alla pari con la Corea del Nord troviamo l'Iran, che come Stato terrorista vanta più di 37 anni di anzianità, a cui Obama aveva concesso chances di riabilitazione, ma per il ruolo determinante  avuto assieme alla Russia  nel debellare la “fanteria americana” dell'ISIS, sta scatenando lo spirito vendicativo di Donald Trump; con Israele che scalpita per spezzare quella pericolosa filiera sciita che va dal Libano a Teheran. Ma attenzione al fronte europeo dove al momento sembra regnare una relativa calma. Qui la NATO continua a compiere grandiose manovre con i suoi alleati simulando un attacco russo, e la Russia risponde con esercitazioni congiunte con la Bielorussia di Alexandr Lukascenko, “l'ultimo dittatore europeo” come lo chiamano i democratici guerrafondai dirittumanisti come BHL. Sono soprattutto i tre Paesi baltici e la Polonia che non vedono l'ora di far scattare l'articolo 5 dell'Alleanza per innescare una guerra con la Russia …

 

Torino 29 ottobre 2017 - Cesare Allara per il CIVG