GAZA, Palestina: nuovi possibili scenari in prospettiva

settembre 2017

“Nessuna apertura diplomatica in vista. Divisioni di cui non scorgiamo la fine

Si è in un periodo di inquietante attesa. Nessuno può sapere  dove ci condurrà”

 

 

Premessa

La Palestina è tornata a occupare un posto di rilevanza nel quadro tragicamente convulso del Medio Oriente. La crisi esplosa nei luoghi di preghiera di Al-Aqsa ha restituito alla crisi arabo-israeliana un ruolo di assoluto rilievo, da diverso tempo assunto dalle guerre in corso in Iraq e Siria e in misura inferiore dall’infame guerra di aggressione contro il più povero Paese della regione, lo Yemen.

Gli eventi succedutisi a Gerusalemme est, sottoposta all’illegale occupazione israeliana, mai riconosciuta dalla comunità internazionale, hanno riacceso gli ardori dell’irredentismo palestinese, nuovamente alle prese con la spietata repressione israeliana. Secondo quanto pubblicato da organizzazioni umanitarie palestinesi operanti congiuntamente in Cisgiordania e a Gaza, la rivolta ha innescato un’ondata di arresti sommari ai danni di centinaia di palestinesi, in maggioranza giovani, uomini e donne. I persistenti condizionamenti israeliani alla libertà di culto nella terza città sacra dell’Islam nonché il ricorrente tentativo di Tel Aviv di completare l’opera di spoliazione ed occupazione nei territori palestinesi, violando intese internazionali in materia, hanno provocato una vibrante reazione nella misura in cui la moschea di al Aqsa è assurta a simbolo, questa volta religioso, di un moto emanante dal basso, in particolare da giovani, delusi dalle tergiversazioni diplomatiche e dalle faide interne alla leadership palestinese, disposti al sacrificio supremo in nome della preservazione della loro calpestata identità.

Mentre torbide manovre si appronterebbero a Tel Aviv mirate a colpire settori della minoranza araba in Cisgiordania e mentre sulla comunità beduina, 200.000 anime residenti nel deserto del Negev, incombe il pericolo di divenire un’entità di apolidi, in un campionario di inefficienza amministrativa e di ricorrenti soprusi, lo scopo di questa riflessione è di attirare l’attenzione su una recente evoluzione interessante l’enclave di Gaza.

Iniziative sono in corso per porre mano alle sofferenze della popolazione palestinese ivi residente (2 milioni di persone), sottoposta dal 2007 a un blocco terrestre e navale da parte di Israele a seguito del successo elettorale registrato da Hamas nel 2006 cui fece seguito una cruenta guerra fratricida conclusasi con la cacciata dello schieramento rivale di Fatah, laico e sostenuto dall’Occidente, riluttante ad accettare il responso delle urne.

Da allora l’esistenza dei residenti nell’enclave si è rivelata un vero inferno e tre guerre scatenate da Israele in meno di dieci anni hanno aggravato le condizioni di vita, seminando morte, disperazione e un’immensa povertà.

I contrasti con l’Autorità Palestinese, dominata dalla formazione di Fatah e dalla controversa leadership di Mahmoud Abbas, figura poco amata per la repressione esercitata in Cisgiordania contro coloro (figure politiche, giornalisti, intellettuali ed altri) non disposti a subire il suo autoritarismo, hanno impedito la riunificazione dello schieramento palestinese. A tal proposito Abbas è considerato dai responsabili dell’apparato di sicurezza israeliano come “la migliore garanzia per Israele”, apprezzamenti corroborati dalla similitudine tra le misure coercitive emananti dai due apparati repressivi.

Ebbene tale doloroso stallo, di cui Gaza paga le dolorose conseguenze, potrebbe forse sbloccarsi grazie a sviluppi che lasciano prefigurare assetti difficili da immaginare fino a un tempo assai recente.

 

L’intervento di nuovi attori

Scarso spazio è stato riservato nei media internazionali agli intensi contatti svoltisi in queste ultime settimane vertenti sul disastroso quadro economico-sociale prevalente nell’enclave palestinese, a seguito anche della mancata realizzazione degli impegni di aiuto assunti dalla comunità internazionale all’indomani dell’ultimo conflitto del 2014. Il blocco, imposto da Israele, cui si è aggiunto quello deciso dall’Egitto, consistente nella chiusura dal 2013 del punto di passaggio di Rafah, l’unica finestra sul mondo esterno di Gaza, ha inferto un colpo mortale alle condizioni di vita nell’enclave.

Le recenti decisioni di Mahmoud Abbas il quale, sfruttando una congiuntura internazionale ritenuta propiziante per piegare Hamas, ha ridotto i pagamenti all’ente israeliano per le forniture di energia elettrica all’enclave, tagliato gli emolumenti versati ai propri dipendenti residenti a Gaza nonché i permessi accordati per le visite mediche all’esterno dell’area, hanno reso vieppiù insostenibile il quadro di vita a Gaza, a tutto beneficio delle frange jihadiste ostili alla leadership di Hamas, principalmente responsabili del lancio di razzi e tiri di mortai diretti al di là della frontiera meridionale di Israele.

Ed è a questo punto che qualcosa di nuovo si è messo in moto. Un qualcosa legato anche alla volontà di qualcuno di prendersi una rivincita, imprimendo al corso degli eventi un andamento suscettibile di giovare a quei due milioni di palestinesi residenti in quello che in un rapporto delle Nazioni Unite è stato definito “un luogo che potrebbe diventare non umanamente abitabile in un futuro molto ravvicinato, dove il grado di disfacimento ambientale è spaventoso”.  Il luogo dove il livello di disoccupazione è il più alto al mondo, aggirantesi intorno al 60%, dove più del 70% della popolazione vive grazie all’aiuto delle organizzazioni umanitarie, un prezzo terribile fatto pagare a Hamas per la vittoria elettorale registrata nel 2006 e per essere riuscita l’anno successivo a impedire il rovesciamento del responso elettorale da parte di Fatah, com’era negli auspici di Israele e degli Stati Uniti.

In questo contesto di estrema vulnerabilità matura la decisione della leadership islamista palestinese di riannodare i contatti con un personaggio di primo piano, Mohammed Dahlan, rivale acerrimo di Mahmoud Abbas, col quale sette anni fa aveva ritenuto di misurarsi elettoralmente, col risultato di essere costretto a rifugiarsi in esilio negli Emirati arabi uniti, per evitare di subire la triste sorte toccata a Marwan Barghouti, figura storica della resistenza palestinese, tuttora detenuto nelle carceri israeliane dopo la condanna subita in occasione della Seconda Intifada.

Una serie di incontri triangolari segreti ha avuto luogo nella prima metà di luglio nella capitale egiziana tra il nuovo Primo Ministro  di Hamas, Yahya Sinwar, promosso a tal rango dopo decenni trascorsi nelle galere sioniste, Mohammed Dahlan, e la controparte egiziana, composta da membri dell’intelligence e della Difesa nazionale.

Com’è stato possibile cancellare un passato segnato da un’irriducibile contrapposizione, ove si pensi che lo stesso Mohammed Dahlan era stato prima della vittoria di Hamas nel 2006 protagonista di una repressione spietata, come responsabile della sicurezza di Fatah, nei confronti di ogni militante islamista? Al punto di essere definito il “torturatore” di ogni voce discorde a Gaza?

La prima ragione è lo stato di gravissima debolezza politica nel quale attualmente versa Hamas. Il colpo di stato prodottosi nel luglio del 2013 al Cairo, col quale il governo presieduto da Mohammed Morsi, democraticamente eletto, è stato brutalmente rovesciato da una giunta militare capeggiata dall’attuale uomo forte, il generale Abdel Fatah al-Sissi, ha assestato un colpo durissimo al governo islamista palestinese. Hamas ha perso un prezioso alleato e la possibilità di sfruttare il punto di passaggio di Rafah, alla frontiera tra l’Egitto e l’enclave di Gaza. Rafah è sempre stata una valvola d’ossigeno per Hamas, un luogo di transito per beni e servizi indispensabili per attenuare le conseguenze del crudele blocco imposto da Israele.

Ulteriore negativo sviluppo è stata la recente plateale spaccatura prodottasi in seno ai sei Paesi del “Gulf Cooperation Council”. Tre delle sei autocratiche monarchie, Arabia Saudita, Emirati arabi uniti (UAE) e Bahrein, stato vassallo del regno saudita, appoggiate dall’Egitto, legato a Riyadh e Abu Dhabi da pesanti vincoli di dipendenza economica e finanziaria, hanno imposto al “riottoso” Emirato di Qatar, un embargo totale, peraltro osteggiato dagli altri due membri del GCC, Kuwait e il sultanato di Oman, che hanno sempre caratterizzato la loro collocazione in seno alla struttura regionale per senso di equilibrio e moderazione. L’impulsiva decisione ha creato seri problemi alla strategia americana prioritariamente finalizzata alla lotta contro il terrorismo dell’ISIS. Tale sviluppo successivo alla disastrosa visita di Trump in Arabia saudita, la prima missione in un Paese estero del collerico personaggio, non sembra di facile ricucitura. Doha, a tutela della propria minacciata sovranità, si è vista costretta a riorientare le rotte della propria compagnia aerea e a ricorrere all’aiuto del vicino Iran e della Turchia per rifornimenti di prima necessità..

Gli eventi sopra riportati in un ambito generale avvelenato dalla politica di Donald Trump, irresponsabilmente schieratosi dalla parte di Riyadh, ulteriore deleterio sviluppo per Hamas, hanno creato una situazione di estrema fragilità per la leadership islamista a Gaza, resa vieppiù grave dalle inumane scelte assunte da Mahmoud Abbas, sostenuto dal nuovo inquilino della Casa Bianca, mirate a piegare Hamas, il vero ostacolo alla realizzazione del suo disegno di dominio. Il solo col quale le cancellerie del mondo dovrebbero interloquire, silenti di fronte alle politiche repressive adottate da una figura politica sempre più contestata. A tal proposito un recente sondaggio ha rivelato che 2/3 dei palestinesi desiderano che Abu Mazen, com’è familiarmente chiamato, rassegni le dimissioni e che al suo posto subentri Marwan Barghouti.

Il processo di indebolimento della leadership islamista a Gaza era già iniziato con i rivolgimenti conseguenti all’insorgere della Primavera araba del 2011, del quale i negativi sviluppi prodottisi in Egitto, Siria e Libia sono stati gli approdi più avvilenti. Lo stesso alleato di Hamas, l’islamista Erdogan, ha allentato il sostegno nei confronti dell’enclave grazie alle mutevoli opportunistiche scelte del “nuovo Sultano”, che hanno portato al fallimento della politica volta a fare della Turchia un punto di riferimento per i Paesi della regione; obiettivo instancabilmente perseguito dall’ex-Primo Ministro Ahmet Davutoglu, messo da parte da Erdogan, intollerante verso coloro ritenuti di ostacolo ai suoi autocratici disegni.

Ciò dà un’idea delle difficoltà in cui si è venuto a trovare Hamas, costretto a riorientare le sue scelte per evitare una sua implosione. E da qui dunque sono partiti i contatti delle ultime settimane tra l’enclave e coloro visti fino a un recente passato come irriducibili nemici. Il negoziato a tutt’oggi ha prodotto alcuni salutari effetti. L’Egitto infatti sotto la spinta di Dahlan e dei suoi sponsor, gli Emirati arabi uniti, ha acconsentito a riattivare l’unica centrale elettrica di Gaza, assicurando maggiori forniture di energia.

Nel rinnovato contesto i nemici del passato ed i loro sponsor regionali hanno prefigurato i vantaggi derivanti da un avvicinamento con Hamas attraverso il quale imbrigliare le temute pulsioni militanti, al contrario di quanto costatabile al momento, caratterizzato da un muro contro muro tra il governo di Gaza e l’Autorità palestinese a Ramallah, situazione portatrice di pericolose derive suscettibili di giovare all’estremismo jihadista.

 

Retroterra politico

Uno sguardo nel complesso scenario regionale lascia intravvedere le linee di tendenza del quadro complessivo. Prendiamo Israele che ha visto rinsaldarsi i suoi rapporti con due Paesi chiave, quali Egitto e Arabia saudita. Tel Aviv ha tratto beneficio dagli orientamenti assunti dal Presidente Trump in merito all’accordo nucleare stipulato nel luglio 2015 dall’Occidente con Teheran, definito dallo sconcertante Donald come “il peggiore accordo che sia mai dato di vedere” (sic). Altri sviluppi impattanti sono stati i rivolgimenti di palazzo prodottisi a Riyadh, dove Mohammed bin Salman, l’ambizioso e irriflessivo figlio dell’attuale debole e malato sovrano, Salman bin Abdulaziz, ha fatto terra bruciata attorno a sé, imprimendo alla politica del Regno un’impronta decisionista e settaria, rivelatasi fallimentare, chiamando a raccolta l’universo sunnita contro “il comune nemico sciita”, l’Iran; spalleggiato dall’altrettanto impulsivo erede al trono degli Emirati arabi uniti, Mohammed bin Zayed, nemico implacabile, al pari del dittatore egiziano al-Sisi, dei Fratelli mussulmani, sunniti ma “terroristi”, e allineato sulle posizioni anti-iraniane della monarchia saudita. Da qui scaturisce l’avvicinamento, ora non più occulto, tra Israele e la galassia conservatrice sunnita. A riprova della sconsideratezza della politica saudita, già sotto accusa per l’orrenda aggressione contro lo Yemen, esecrata dalle organizzazioni umanitarie, occorre rilevare come il fronte sunnita anti-iraniano si sia successivamente sgretolato a causa dell’embargo imposto a Qatar.

Siamo in presenza di uno scenario inedito del quale un altro elemento farebbe parte. Quale? La riluttanza israeliana a prevedere un’altra prova di forza con Hamas che porterebbe a un conflitto più cruento di quello del 2014, esponendo lo Stato ebraico al rischio di una conflagrazione dagli effetti imprevedibili, alla luce di un quadro regionale fluido e poco rassicurante per Israele. A tal fine Tel Aviv ha dato avvio alla costruzione alla frontiera con Gaza di un muro sotterraneo lungo più di sessanta chilometri in grado di neutralizzare l’utilizzazione di tunnel da parte di Hamas in caso di conflitto.

A riprova delle apprensioni avvertite a Tel Aviv, vi è inoltre da tener presente la precarietà del quadro di sicurezza esistente al di là delle frontiere nord ed est di Israele, esposte ai pericolosi contraccolpi della guerra civile siriana. Di ciò si è persuasi ai veri livelli delle sfere di potere in Israele dove peraltro non è da escludere una crisi politica interna legata alle vicende giudiziarie di Netanyahu, sotto inchiesta per ripetuti comportamenti illegali (frode, corruzione, abuso d’ufficio). Ergo Israele preferisce attendere, rafforzando le strutture di sicurezza, osservando con circospetto silenzio gli sforzi negoziali delle tre parti arabe nel mentre pondera le possibili reazioni all’approssimarsi della minaccia iraniana alle frontiere settentrionali ed orientali. 

Ulteriori costatazioni sono poi da fare. La più importante di queste è che la prospettiva della soluzione della crisi attraverso la creazione di un’entità palestinese compresa nei confini precedenti alla guerra del 1967 appare allontanarsi. Nessun reale progresso nel processo di pace è stato registrato dal 2009, dal momento della presa di funzioni di Netanyahu, e la trattativa versa attualmente in uno stallo completo. I tentativi della passata Amministrazione Obama di far ripartire il processo di pace sono miseramente falliti, principalmente a causa dell’insormontabile determinazione di Tel Aviv di portare avanti il programma di illegale espansione degli insediamenti ebraici nei territori palestinesi occupati da Israele in esito alla guerra del 1967.  Né il nuovo tentativo negoziale preannunciato da Trump sembra suscitare particolare ottimismo se non altro alla luce delle oscure connessioni con Israele del Presidente e del suo entourage, composto da parenti e collaboratori, legati a doppio filo con Tel Aviv.

Nulla è servito per indurre lo Stato sionista a riconoscere i legittimi diritti del popolo palestinese, sostenuti dalla comunità internazionale e contenuti nella risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvata all’indomani del succitato conflitto e successivamente reiterati in un’altra risoluzione, la 338, formalizzata al termine del successivo conflitto del 1973. In entrambe si ponevano con chiarezza le basi di un accordo consistente nel recupero dei territori occupati e l’istaurazione di un clima di pace e di collaborazione tra Israele e uno Stato palestinese indipendente. Ben altre nove risoluzioni hanno fatto seguito alle due sopra menzionate, l’ultima delle quali è stata la  2334, approvata dal Consiglio di Sicurezza il 23 dicembre dello scorso anno grazie all’astensione americana, a dimostrazione dell’esasperazione della uscente Amministrazione Obama di fronte alla volontà israeliana di non recedere dai programmi di colonizzazione degli spazi palestinesi e dal conseguente svilimento del processo di pace.

Analoga sorte è stata riservata all’ “Iniziativa Araba di Pace” del 2002, promossa dall’Arabia saudita, approdata nel nulla, ed agli sforzi prodigati dal cosiddetto non del tutto credibile Quartetto, composto dalle Nazioni Unite, l’UE, gli Stati Uniti e la Russia, anch’esso incagliatosi nelle maglie della ferma opposizione di Tel Aviv a collaborare positivamente con qualsiasi organismo che mirasse a sbloccare l”annosa impasse.

Abbiamo parlato di uno scenario di estrema problematicità riguardo all’uscita dalla crisi. Simili previsioni non sono azzardate; esse hanno ricevuto costante conferma da quanto con arroganza posto in essere in questi ultimi anni dal governo presieduto da Netanyahu, a capo di un governo condizionato dalla destra estrema, dove figure di spicco parlano da qualche tempo di procedere ad una annessione della maggior parte degli spazi della Cisgiordania. Secondo statistiche pubblicate dalle Nazioni Unite, la consistenza demografica dei 140 insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gerusalemme est supererebbe le 600.000 unità. Tale apparentemente irreversibile processo, con la carica esplosiva che porta con sé, renderebbe pressoché impossibile la realizzazione della progettata creazione dei due Stati. In sua vece vi è ora uno Stato dove vige la logica dell’apartheid, la “bantustanizzazione” dell’entità palestinese, uno spazio dove la comunità araba è straniera e vilipesa nella propria dimora. D’altronde ciò appare in linea con recenti sondaggi da cui emerge che negli ultimi 16 anni il sostegno degli israeliani alla soluzione dei due Stati è crollata dal 71% del 2011 all’attuale 51%.

Questa è la realtà con la quale la leadership palestinese, in Cisgiordania e a Gaza, deve fare i conti. Due leadership peraltro separate da profondi contrasti e per le quali le speranze di una riconciliazione paiono assottigliarsi. In proposito vi è da rilevare che, mentre in seno allo schieramento islamista si è sempre riusciti a mostrare un fronte unito reso compatto dall’irriducibile volontà di resistenza all’oppressore, all’interno del movimento Fatah l’autoritaria e corrotta “governance” di Mahmoud Abbas, nei ristretti limiti entro cui è costretta ad operare, ha seminato malessere e divisioni laceranti.

 E’ dunque partendo da queste costatazioni che possiamo ora riannodarci al tema centrale della nostra esposizione, ossia il delinearsi di nuovi approdi che, per altre vie, potrebbero forse attenuare le terribili sofferenze che da decenni l’enclave di Gaza subisce da parte dell’entità sionista, vittima dello spietato blocco imposto al territorio dal 2007 ed anche delle tre guerre che Israele ha scatenato contro Hamas a tre riprese, dal 2008 al 2014, con un bilancio devastante in termini umani e materiali; in uno scenario internazionale imprevedibile che impone nuove vie, nuove risposte..

 

Nuovi possibili scenari

Abbiamo delineato il complesso retroterra dal quale delicate trattative tra attori divisi da divergenze ideologiche apparentemente insormontabili hanno preso le prime mosse. Si è avviato un negoziato determinato anche dal livello di profonda contrapposizione esistente in seno allo schieramento palestinese aggravato da decisioni assunte da Abbas che colpiscono una comunità già martirizzata.

La volontà di rivalsa di una figura di rilievo come Mohammed Dahlan ha indubbiamente contribuito a che simili contatti prendessero avvio. I non idilliaci rapporti che gli egiziani intrattengono con l’uomo forte di Fatah, considerato al Cairo “un individuo torbido dalle movenze poco rassicuranti”, hanno anch’essi spianato la strada perché la trattativa triangolare potesse avviarsi.

Alla base del processo vi sarebbe altresì un’altra motivazione, della quale taluni cominciano a parlare: ovverossia che da parte di Israele si tende a conferire crescente concretezza all’idea di precludere in futuro la riunificazione dei due territori palestinesi della Cisgiordania e di Gaza. In sostanza Tel Aviv perseguirebbe il disegno di tenere separati in maniera permanente i due territori, dato che rebus sic stantibus una loro unione determinerebbe per l’entità sionista un aggravarsi dei pericoli cui è già esposta nell’area. Tali timori sono giustificati dal clima di risentimento e d’indelebile odio per la potenza occupante che percorre la Cisgiordania la cui carica irredentista travalica i freni posti da una dirigenza palestinese screditata, collusa con i servizi di sicurezza israeliani. La prospettiva che uno Stato palestinese possa nascere dall’unione dei due spazi parrebbe a questo punto poco meno che utopistica, anche a causa del peso politico della destra estrema nell’attuale leadership israeliana, assurta ad un ruolo determinante, cui fa da contraltare l’indebolimento politico di Netanyahu, esposto alle conseguenze dell’inchiesta giudiziaria che pende sul suo capo.

Questi fattori, un insieme di elementi legati alle ambizioni dei personaggi e alla deludente evoluzione di un progetto di pace perseguito per decenni, hanno fornito gli stimoli perché qualcosa di inedito si mettesse in movimento.

I commenti sui risultati scaturiti dai colloqui del Cairo hanno addirittura prefigurato sbocchi che a nostro avviso apparirebbero al momento futuristici. Riteniamo che, senza precorrere eccessivamente la dimensione reale dei tempi, occorra comunque porre in risalto il rilievo assunto dai risultati annunciati a questo stadio della trattativa, iniziatasi all’inizio dello scorso luglio. Essi sono per Hamas significativi se si pensa al positivo impatto derivante dalla annunciata riapertura del passaggio egiziano di frontiera di Rafah, prevista in tempi ravvicinati, accompagnata da più regolari forniture di energia elettrica agli abitanti di Gaza, e dal pagamento di cospicui indennizzi da parte degli Emirati arabi uniti a beneficio di tutte quelle famiglie palestinesi colpite dalla perdita dei propri cari nel corso dei sanguinosi scontri tra le due fazioni nel 2007.

Da parte sua Hamas, a conferma della serietà dei suoi intenti, ha aderito alla richiesta egiziana di edificazione di un’area fortificata alla frontiera con l’Egitto allo scopo di ostacolare le infiltrazioni di jihadisti nell’area del nord Sinai, percorsa dall’onda militante. Una simile richiesta, pochi mesi fa, non sarebbe stata presa in considerazione.

Significativa e certamente non di scarso impatto è apparsa altresì  la riunione, avvenuta a fine luglio, del Parlamento di Gaza dove per la prima volta dal 2007, anno in cui gli islamisti cacciarono la formazione di Fatah dall’enclave, l’organo legislativo palestinese si è riunito al completo, includendo i 45 parlamentari di Fatah sostenitori di Dahlan ed altri membri indipendenti. L’evento, naturalmente boicottato da Mahmoud Abbas e dai suoi proseliti, ha registrato altresì un collegamento video con il quale Mohammed Dahlan ha parlato dal suo esilio di Dubai “con i fratelli di Hamas”, reiterando il proprio intendimento di tutto mettere in opera “per ridare speranza alla popolazione di Gaza”. Il fatto che per la prima volta dopo dieci anni parlamentari di Hamas e di Fatah si trovino insieme in una sede istituzionale è stato giudicato da autorevoli media arabi “sicuramente positivo”. Un evento dagli sviluppi tutti da verificare, ma che rappresenta un messaggio di speranza e una reazione a un quadro politico generale avaro di speranze per la resistenza palestinesi.

L’aspetto da segnalare in proposito è la forza degli elementi di convergenza manifestatisi nel corso del negoziato tra le tre parti. Essi sono principalmente la disperata situazione prevalente a Gaza, il desiderio di Dahlan e della fazione in seno a Fatah di reinserirsi attivamente nell’agone politico e l’intendimento egiziano di recidere i legami esistenti tra Hamas, filiazione dei Fratelli mussulmani, e il movimento islamista in Egitto, oggetto di una spietata repressione. Non solo. Altri attori nella devastata regione vedrebbero con simpatia il successo di un negoziato che rimescolerebbe molte carte. In primis, come abbiamo già visto, Israele, certamente non contraria a che un personaggio inflessibilmente anti-islamista come Dahlan possa assumere un ruolo di primo piano nell’enclave, in grado di controllare e reprimere le derive estremiste non tanto in seno ad Hamas quanto al suo esterno. I buoni rapporti sul piano personale intrattenuti da Dahlan con Yahya Sirwan, il nuovo uomo forte a Gaza, costituirebbero la base perché le intese avviate possano proseguire con successo.. Le visioni militanti di Sirwan hanno dovuto cedere il passo all’esigenza di trovare vie d’uscita a un quadro a Gaza assolutamente insostenibile.

La favorevole evoluzione di questa trattativa comporterebbe per Israele, oltre alla fine del blocco navale e terrestre imposto per decenni all’enclave, il trovarsi meno esposta agli attacchi che alla sua frontiera meridionale, quella con Gaza, hanno luogo, fonte d’insicurezza per le comunità residenti in prossimità del confine con l’enclave. In definitiva per Israele i vantaggi supererebbero le zone d’ombra che sempre si annidano in ogni soluzione politica in Medio Oriente, consentendo a Tel Aviv di concentrare principalmente la propria attenzione sulla frontiera nord, dove incombe il temibile arsenale militare degli Hezbollah libanesi, e su quella est, al di là della quale operano formazioni jihadiste e forze siriane appoggiate militarmente in loco da milizie sciite filo-iraniane.

Altri possibili beneficiari del “power-sharing agreement” (accordo di divisione dei poteri) sarebbero l’Arabia saudita e gli Emirati arabi uniti, ora coalizzati contro il minuscolo e potente Emirato di Qatar. Doha è stato per decenni e continua ad essere erogatore di aiuti a Gaza per centinaia di milioni di dollari, unitamente al suo alleato strategico, la Turchia.  Entrambi i Paesi restano uniti dalla condivisa adesione al credo dell’Islam politico, aberrato per converso dalle monarchie dinastiche del Golfo, in primis, oltre a Riyadh e Abu Dhabi, anche lo squallido regno di Bahrein, dove un’oligarchia sunnita opprime una maggioranza sciita e dove imperversano gravissime violazioni dei diritti umani. Scalzare progressivamente l’influenza di Qatar (e dell’Iran) dall’enclave costituirebbe un approdo importante, seppur non di agevole conseguimento, per il regno saudita e gli Emirati ove si tengano a mente i rapporti di proficua interazione esistenti tra Qatar e l’Iran, co-proprietari del più grande giacimento al mondo di gas naturale nel Golfo Persico, ergo considerati dai succitati tre regimi assoluti pericolosamente conniventi nell’opera di destabilizzazione degli ordini dinastici. La preservazione di tale ordine, nel rispetto di priorità che nulla hanno a che vedere con i reali interessi dell’universo islamico, rappresenta, è bene ricordarlo, il vero preminente obiettivo strategico dei sei Paesi facenti parte di un Consiglio di Cooperazione del Golfo, ora, come abbiamo visto, in aperta crisi.

 

Conclusioni

Quello che è stato sommariamente tratteggiato apparirebbe come una via d’uscita da un quadro senza speranza per i palestinesi.

Ma come fatto presente da Dahlan in occasione della video conferenza di fine luglio al Parlamento di Gaza, “il sentiero da percorrere è ancora molto lungo”,  cosparso di ostacoli ed incognite.

La principale zona d’ombra riguarderebbe la figura, storica ma controversa, del capo del Governo palestinese, riconosciuto dalla comunità internazionale, Mahmoud Abbas. Come già accennato la sua posizione si è indebolita nel contesto arabo, anche a causa delle sue biasimevoli decisioni,  recentemente reiterate, assunte contro l’enclave che hanno suscitato l’irritazione della stessa dirigenza israeliana, che lo ha accusato di costringere Israele ad una guerra dalla quale Tel Aviv intende tenersi fuori.

Abbas prosegue nel suo lesivo autoritarismo. Le gravi misure restrittive della libertà d’espressione adottate in Cisgiordania poche settimane fa con le quali si è proceduto alla chiusura di ben 30 siti online appartenenti principalmente ai due suoi nemici dichiarati, Mohammed Dahlan e Hamas, hanno allargato il fossato che lo separa dalla maggioranza dei palestinesi. Tali decreti sono stati approvati senza alcun confronto d’idee, con un atto d’imperio. A parere di Ammar Dweik, responsabile della Commissione palestinese sui Diritti umani, organo di nomina governativa, le misure in questione sarebbero da annoverare tra “le peggiori adottate dall’Autorità palestinese dal momento della sua creazione nel 1994”. Quattro sono le ragioni addotte a sostegno di simili gravi affermazioni: la vaghezza del contenuto delle disposizioni, l’ampiezza dei poteri conferiti alle autorità di sicurezza, il carattere esteso del campo d’intervento loro attribuito nonché la durezza delle punizioni che contemplerebbero, in caso di “comportamenti ritenuti lesivi della sicurezza del territorio”, condanne fino all’ergastolo (!). Questi a nostro parere, sono segnali che lasciano trasparire una crescente vulnerabilità del sistema di potere instaurato da Abbas.

Al momento l’unico vero sostegno nella regione di cui Abbas continua ad avvalersi proviene dal re di Giordania Abdullah, uno dei pochi leader in Medio Oriente tenuto in considerazione dal suo popolo, anche se esposto ai contraccolpi negativi, principalmente sul piano interno, derivanti dalla vessatoria politica israeliana nella regione, oltre che dalla contiguità territoriale col fronte di guerra siriano.

In ogni caso l’uomo forte di Ramallah non mollerà facilmente il suo potere, in essere da più di dodici anni, avendo sempre rifiutato di sottoporsi al vaglio degli elettori con il pretesto dei pessimi rapporti esistenti con Hamas. L’intendimento di Abu Mazen, tuttora nelle grazie dei suoi protettori occidentali, è di sfruttare l’irruzione del caotico Trump nello scenario internazionale per prendersi la rivincita su Hamas dopo lo scacco subito dieci anni fa; calpestando in the process la dignità e il benessere dei suoi connazionali residenti a Gaza.  La faida senza fine con il rivale Dahlan, iniziata nel 2010, sembra aver irritato anche i tradizionali sostenitori dell’Autorità palestinese, gli Emirati arabi uniti in primis.

Il fatto poi che Abu Mazen, dalla vacillante salute, abbia superato abbondantemente la soglia degli ottanta anni e che il suo più fidato collaboratore, Saeb Erekat, più giovane di lui di vent’anni, apprezzato dalle cancellerie occidentali per le capacità negoziali, soffra di seri problemi di salute, costituirebbe uno stimolo ulteriore perché a Riyadh e ad Abu Dhabi non si disdegni di cercare un cavallo vincente, sì da colmare un futuro vuoto di potere, dagli sbocchi imprevisti.

L’ambizione di Mohammed Dahlan è di assurgere al ruolo di colui in grado di riunificare le due anime della resistenza palestinese. Se poi aggiungiamo il non trascurabile dettaglio che la sua permanenza a Dubai gli ha consentito di trasferire risorse finanziarie nell’enclave, elargite dai suoi ricchi sponsor arabi, avremmo la prova della consistenza delle carte che Dahlan intende giocare. Il denaro parla, pochi dubbi in proposito.

Non dimentichiamo inoltre che lo stesso Dahlan si è trovato in passato allineato sulle posizioni sostenute da una figura molto rispettata dai palestinesi, Marwan Barghouti, col quale condivise poco più di dieci anni fa l’iniziativa mirata a denunciare i tratti meno qualificanti della leadership di Abbas: autoritarismo e corruzione. Ben poco scaturì da quei commendevoli sforzi, anche a causa dello stato di detenzione di Barghouti, che non ha beneficiato a tutt’oggi di alcuna amnistia.

In ogni caso una quota consistente di consensi continuerà ancora a manifestarsi a favore del “vecchio leader”. Sono gli stessi ambienti che hanno disertato la summenzionata seduta del Parlamento di Gaza, in aperto contrasto con i sostenitori di Dahlan che per converso vi hanno entusiasticamente partecipato. Ecco perché riteniamo che la spaccatura all’interno di Fatah che ne conseguirebbe potrebbe essere la fonte di tensioni nell’arengo palestinese difficili da prevedere.

Una difficoltà ulteriore sarebbe inoltre data dal quadro di sicurezza, molto precario e di ardua soluzione, esistente nella parte settentrionale del Sinai, dove imperversa uno scontro sanguinoso tra l’esercito egiziano e forze jihadiste vicine all’ISIS. Tale situazione potrebbe ritardare o complicare l’apertura del passaggio di Rafah, tassello importantissimo dell’accordo complessivo tra le tre parti..

Molti comunque si augurano che il negoziato avviato da Hamas con l’Egitto e la fazione palestinese vicina a Dahlan possa avere un positivo sbocco nell’interesse della popolazione dell’enclave e del conseguimento di un quadro di maggiore sostenibilità. Il dramma umanitario prevalente a Gaza necessita urgenti risposte in mancanza delle quali si profilerebbe davanti a noi un pericoloso salto nel buio, valutando lo scenario regionale nel quale interverrebbe.

Un nuovo capitolo della storia di questo indomito popolo sembra comunque sul punto di aprirsi. Sarà indubbiamente interessante osservarne i seguiti e gli sviluppi. La crisi arabo-israeliana continuerà in ogni caso a essere considerata quello che è sempre stata: la Madre di tutti i problemi che hanno sconvolto il Medio Oriente dalla fine della Prima guerra mondiale. La loro mancata soluzione continuerà a pesare come un macigno su ogni affidabile duraturo nuovo corso nei rapporti tra il mondo arabo e l’Occidente.

§ Note Informative

Hamas è stata fondata nel 1987 all’indomani della prima Intifada da Ahmed Yassin, figura politica palestinese di Gaza legata al credo ideologico dei Fratelli mussulmani. Yassin godeva di grande popolarità presso le masse palestinesi, secondo taluni quasi allo stesso livello del defunto Yasser Arafat. Tetraplegico dall’età di dodici anni, Ahmed Yassin fu colpito a morte da un elicottero militare israeliano il 22 marzo 2004 mentre usciva dalla moschea al termine delle preghiere del mattino. Due mesi prima della sua morte Yassin aveva fatto conoscere la disponibilità di Hamas a concordare “una lunga tregua” con Israele alla condizione che la Palestina recuperasse, oltre ovviamente a Gaza, i territori occupati di Cisgiordania e di Gerusalemme est, “lasciando alle generazioni future” il riconoscimento del diritto di ritorno in patria delle centinaia di migliaia di rifugiati palestinesi espulsi dalla loro terra nel 1948, nel corso di quello che gli arabi hanno chiamato “al-Nakba” (catastrofe). Come altre simili concilianti responsabili aperture, anche questa rimase senza risposta.

Le guerre scatenate da Israele contro l’enclave di Gaza sono state, dal momento dell’assunzione al potere di Hamas, tre. La prima, denominata “Cast Lead” (piombo fuso), nota anche come il “Massacro di Gaza”, fu iniziata negli ultimi giorni del 2008 e durò tre settimane. Comportò stragi nella popolazione civile e gravissime devastazioni nel territorio, tra cui il bombardamento della sede del Parlamento palestinese a Gaza, cui fece seguito nel settembre dello stesso anno un raid dell’aviazione israeliana che portò alla sua completa distruzione.  La seconda, denominata “Defence Pillar” (Pilastro di difesa) ha avuto luogo nel 2012 ed è durata una settimana. Una delle cause del conflitto fu la proditoria eliminazione fisica di Ahmed al-Jabari, capo della branca armata di Hamas, incline a un approccio dialogante, ucciso a seguito di un’incursione aerea mentre stava portando a termine un negoziato con la controparte sionista per “una tregua prolungata”.

La terza conflagrazione, denominata “Protective Edge” (bordo di protezione), è avvenuta nell’estate 2014 e ha comportato incalcolabili devastazioni nelle infrastrutture civili dell’enclave, tuttora ben visibili. Altissimo è stato il tributo di sangue pagato dai palestinesi: più di duemila morti dei quali più di cinquecento infanti in tenera età. Il conflitto peraltro non ha prodotto sbocchi significativi se non il mantenimento di una soglia di deterrenza di Israele e la capacità di Hamas di infliggere perdite non trascurabili all’ esercito israeliano.

Hamas è stata sotto la guida politica di Khaled Mashaal per ben 21 anni. Figura vicina alla fazione pro-siriana e pro-iraniana del movimento. Dal suo esilio a Qatar, dove si era trasferito dalla Siria allo scoppio della guerra civile, il leader islamista ha assicurato all’enclave l’appoggio finanziario del minuscolo e ricchissimo Emirato nonché il sostegno politico, economico e militare dell’Iran. Gli sconvolgimenti intervenuti in Medio Oriente e in particolar modo lo scoppio della guerra civile siriana hanno reso inevitabile un mutamento ai vertici di Hamas con l’ingresso ai ruoli di direzione politica di figure temprate alla durezza delle terribili esperienze vissute e subite all’interno dello spazio di Gaza. Da qui è scaturito il ruolo dominante assunto da Yahya Sinwar, figura schiva e impenetrabile, nuovo primo ministro, ex-responsabile dell’apparato di sicurezza, uscito da una prigionia di ventidue anni nelle galere israeliane. La sua apparente buona intesa con Mohammed Dahlan avrebbe trovato l’accordo di un altro importante personaggio, Ismail Haniyeh, responsabile dell’Ufficio politico, il vincitore delle elezioni del 2006 a Gaza, deposto l’anno dopo da Mahmoud Abbas con un decreto, giudicato illegale dal Consiglio legislativo palestinese. Questi furono i prodromi dello scontro fratricida fra le due fazioni palestinesi nel 2007.

Khaled Mashaal continuerebbe comunque a essere il punto di riferimento della diaspora palestinese, sulla quale l’Iran, che intrattiene altresì contatti con la branca armata di Hamas a Gaza, conta per mantenere la propria influenza sulla formazione islamista. Anche in questo ambito la rivalità tra l’Iran e le potenze conservatrici sunnite ha modo di dispiegarsi in un quadro regionale molto aleatorio, in presenza del disperato bisogno della leadership di Hamas di uscire dalla spaventosa situazione in cui versa l’enclave.

Lo scorso 1 maggio Hamas ha pubblicato un importante documento politico, considerato come l’ultima testimonianza lasciata da Khaled Meschal al momento della sua abdicazione. In esso Hamas riconferma l’attuabilità di una soluzione della crisi attraverso la formula dei due Stati. Inoltre viene ancora una volta posto in risalto che un futuro Stato palestinese dovrà occupare gli spazi territoriali esistenti prima della guerra dei Sei Giorni del 1967. Vi è da rilevare che tali affermazioni erano già contenute nelle proposte formulate da Hamas nella prima metà dello scorso decennio e reiterate all’indomani della presa di potere a Gaza nel 2006. Esse erano state trasmesse, oltre che a Israele, anche agli Stati Uniti, rimanendo sempre senza alcuna risposta. Inoltre si tiene nel documento a specificare che Hamas è un movimento di liberazione nazionale il cui strategico obiettivo rimane la liberazione della Palestina. Significativa appare nel testo l’assenza di riferimenti ai Fratelli mussulmani verso i quali si consumerebbe una “silenziosa rottura”. Questo è il prezzo da pagare per compiacere l’Egitto, l’Arabia saudita e gli Emirati arabi uniti, per i quali i FM sono nient’altro che un’organizzazione terrorista. Illuminante appare nel documento la puntualizzazione fatta a proposito di Israele. “Hamas si batte contro il sionismo, forza espansiva ed egemone, ma non contro gli ebrei in quanto tali”. Anche perché la battaglia portata avanti da Hamas – vi si sottolinea – è una battaglia essenzialmente politica e non religiosa. Il movimento fondato trent’anni fa dall’islamista Ahmed Yassin si spoglierebbe quindi delle sue vesti di militanza islamista per divenire progressivamente una forza i cui obiettivi resteranno principalmente ancorati al territorio di suo precipuo interesse. Importanti condizioni per un’intesa sostenibile e duratura con il potente schieramento conservatore sunnita parrebbero in tal modo essere soddisfatte.

Ben poco è stato fatto dalla comunità internazionale per tradurre in realtà quello che era stato solennemente promesso alla Conferenza dei Paesi donatori svoltasi nell’ottobre del 2014 al Cairo, conclusasi con un “pledge” di ben $5.4 miliardi. Gli ostacoli frapposti da Israele e l’ostracismo di Mahmoud Abbas hanno impedito che gli impegni assunti si trasformassero in realizzazioni concrete a beneficio dell’enclave dove, secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite, si potrebbe assistere fin dal prossimo anno a un disfacimento totale (“total collapse”) dell’assetto esistente.

In esito agli ultimi incontri tripartiti svoltisi nella seconda metà di agosto al Cairo, gli Emirati arabi uniti si sarebbero impegnati a versare mensilmente $15 milioni al “Palestinian Joint Liability Committee”, un organismo istituito per affrontare la drammatica situazione umanitaria a Gaza, ormai prossima all’insostenibilità.

Alla fine di agosto una delegazione USA, diretta dal genero e Consigliere di Trump per il Medio Oriente Jared Kushner, ebreo ed esperto di questioni immobiliari, ha effettuato una tournée nella regione conclusasi con incontri con Netanyahu e Mahmoud Abbas. Il bilancio dei contatti ha registrato l’ennesimo rifiuto americano a impegnarsi fattivamente a favore della soluzione dei due Stati, vista solo come una possibilità, “da non escludere”. La visita ha registrato il senso di frustrazione della parte araba, nei cui confronti l’interesse dell’Amministrazione Trump non andrebbe oltre all’obiettivo di tenere coinvolta l’Autorità palestinese di Ramallah nel processo negoziale, spianando in tal modo il terreno al rafforzamento della attuale “policy” israeliana. All’indomani della partenza di Kushner da Israele il PM Netanyahu, nel corso di un evento commemorativo del 50° anniversario dell’occupazione della Cisgiordania, con la partecipazione di coloni e personalità del suo governo, ha tenuto enfaticamente a ribadire che “Israele non lascerà mai i territori” occupati dopo il 1967. “Noi qui siamo e qui rimarremo!”, ha in maniera vibrante sentenziato. Tali esternazioni si sono altresì prodotte all’indomani della visita in Israele ed in Palestina (Cisgiordania e Gaza) del Segretario Generale dell’ONU Antonio Gutierres che da parte sua ha tenuto a reiterare il carattere “illegale” degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi e di come tale modus operandi rappresenti “il principale ostacolo” al successo della soluzione dei due Stati che “rappresenta l’unico positivo sbocco” della crisi arabo-israeliana. Toccanti sono risultati gli accenti di sgomento caratterizzanti i commenti fatti da Gutierres a Gaza nel costatare il livello di povertà e disperazione rilevabili nella minuscola enclave.  Nel corso delle due succitate missioni peraltro non si è accennato al dramma delle migliaia di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, dei quali un non trascurabile numero è privato delle libertà personali in maniera arbitraria.

Ultimo elemento tutt’altro che confortante: il nuovo volto che Hamas si sforza di assumere per uscire da una situazione insostenibile e di completo stallo non ha mutato l’atteggiamento dell’Occidente nei suoi confronti. Hamas continua a essere considerata dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, oltre ché naturalmente da Israele, una  “organizzazione terrorista”, sullo stesso piano di al-Qaeda e dell’ISIS. Un’approssimazione poco qualificante, ci sia concesso di affermare.

 

di Angelo Travaglini per civg.it