Un processo di trasformazione poco notato

aprile 2017

 

 

L’Arabia Saudita è una delle realtà più discusse e controverse, ed al tempo stesso più influenti, in un universo arabo sconvolto da eventi tragici, destinati, inter alia, a mutare la mappa della regione così com’era stata configurata dai colonizzatori europei nel secondo decennio del secolo scorso. Un Paese di strategica rilevanza, sede dei due luoghi santi dell’Islam, Mecca e Medina, dove convergono milioni di fedeli ogni anno, oltre che punto d’incontro di tre continenti, Asia, Africa ed Europa.

Il contrasto della monarchia wahabita con l’Iran sciita rimane immutato e implacabile, destinato a costituire uno dei fattori più gravi d’instabilità nella devastata regione. Per taluni commentatori l’avvelenato rapporto con il potente vicino rappresenterebbe la principale minaccia per il Regno, poggiante la propria legittimità su basi che restano, a distanza di quasi un secolo dalla sua creazione, piuttosto vulnerabili. Le “proxy wars” (guerre per procura) che insanguinano da anni alcune realtà arabe, in primis Siria, Yemen e Iraq, costituiscono le aree dove la contrapposizione tra Teheran e Riyadh appare stridente.

 

Tutto ciò è innegabilmente vero e comprova ampiamente la gravità di uno scontro tra le due sponde del Golfo, determinato, oltre che da motivazioni religiose, perduranti da secoli, anche da un insanabile contrasto di potenza.

Ma vi sono altri elementi suscettibili di generare un senso d’inquietudine presso la Casa Saud e presso tutti coloro interessati alla perpetuazione di un regime a tutt’oggi fedele alleato dell’Occidente, che da questa alleanza ha tratto per decenni lucrosi benefici.

Intendiamo riferirci a problemi di carattere interno, manifestatisi già durante il regno del defunto sovrano Abdullah bin Abdulaziz al Saud, scomparso nel gennaio del 2015, rimpiazzato dall’attuale re, Salman bin Abdulaziz al Saud, l’ultimo sovrano appartenente allo stuolo dei figli del fondatore del Regno, Abdulaziz al Saud.  L’ascesa al trono del re Salman nel gennaio 2015 ha comportato una conseguenza importante: ovvero il conferimento di un ruolo dominante al suo giovane figlio, Mohammed bin Salman (poco più che trentenne), cui il padre, affetto da seri problemi di salute, ha conferito la funzione di secondo pretendente al trono (“Deputy Crown Prince”), oltre a quelle di Ministro della Difesa e di responsabile delle politiche economiche e di sviluppo del Paese.

La giovane età del potente principe, fatto del tutto inedito nella realtà del Regno, governato fino a quel momento da una cronica gerontocrazia, ha contribuito a velocizzare il corso di fenomeni che potrebbero un giorno, secondo taluni pareri, mettere financo in discussione le basi di legittimità di una monarchia dove gli equilibri politici presentano aspetti peculiari, non riscontrabili negli altri cinque Paesi membri del “Gulf Cooperation Council”.

  Mutamenti di mentalità e di costume, attinenti al ruolo delle donne e derivanti dallo sviluppo presso i giovani delle nuove tecniche di comunicazione (la rivoluzione di internet), si stanno radicando nel Paese e non sembrano, almeno fino ad ora, attirare l’attenzione dovuta da parte della maggior parte degli osservatori internazionali.

Altri fattori, di carattere obiettivo, sono peraltro alla base di simili evoluzioni suscettibili di indebolire il ruolo preponderante nel Paese della nomenclatura religiosa, ispirata ai valori di austerità e severa moralità tramandati dal fanatico monaco Abd al Wahab nella seconda metà del diciottesimo secolo.

Il crollo del prezzo del petrolio, provocato in larga misura dalle nuove tecniche di estrazione che hanno contribuito a determinare una persistente abbondanza di greggio nel mercato mondiale, ha indotto ripensamenti in merito ad un sistema economico, fino a un tempo recente traente la propria fonte di ricchezza e prosperità dall’alto prezzo dei beni energetici. Tale assetto ha consentito per decenni cospicue elargizioni e benefici di vario genere attraverso cui il potere politico ha lucrato il consenso di larghi strati di una società civile dove pur tuttavia mai è scomparso un senso di larvato risentimento verso gli enormi privilegi della Casa Saud.

Questa situazione appare ora destinata a mutare, in conseguenza di valori di mercato del petrolio e di altri beni energetici collocatisi stabilmente al di sotto della soglia indispensabile per garantire il mantenimento di una prosperità, da questo momento conseguibile solo attraverso una modernizzazione del sistema economico.

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Nei mesi successivi alla scomparsa di re Abdullah gli orientamenti emersi dalla nuova leadership politica avevano suscitato serie preoccupazioni da parte degli ambienti più liberali. Infatti, le aperture di cui si era reso artefice il defunto sovrano avevano subito con il suo successore, Salman bin Abdulaziz, un visibile freno. Il ruolo del clero wahabita, che non aveva risparmiato critiche agli atteggiamenti moderati del suo predecessore, usciva rafforzato dal cambio di guardia intervenuto. Una chiusura sotto il profilo del costume si produceva nel Paese, accompagnata da un’accentuata chiusura e ostilità verso l’Iran, determinando un corso politico in evidente armonia con i desiderata dell’intollerante settaria nomenclatura religiosa.

Questa situazione ha avuto una sua plateale e drammatica conseguenza con l’aggressione scatenata nel marzo 2015 contro il finitimo Yemen. In questo povero e suggestivo Paese era da tempo in corso una guerra civile provocata dalla rivolta di una tribù araba, gli Houthi, professante un credo religioso appartenente ad una branca sciita, lo zaidismo, che, sull’onda della Primavera araba, rivendicava un più marcato ruolo nella società yemenita, di cui essa fa storicamente parte. Questo interveniva dopo decenni di emarginazione imposti da un autocrate, Ali Abdullah Saleh, paradossalmente appartenente alla loro stessa fede, ma politicamente molto vicino a Riyadh, ora divenuto, con una disinvoltura spesso ricorrente in questi Paesi, un fervido alleato degli Houthi. La circostanza che i rivoltosi professassero una fede religiosa contigua allo sciismo iraniano ha generato reazioni irriflesse, portatrici di disastri, da parte del giovane figlio del sovrano, che vi ha visto in maniera improvvida la longa manus di Teheran, trascurando in toto il particolare che di una guerra civile si trattava nei cui confronti un’aggressione esterna non avrebbe mai portato a una soluzione del problema. E così fino ad ora è stato.

L’attacco allo Yemen dunque non ha sortito fino ad ora gli effetti desiderati dall’ambizioso principe, causando per converso catastrofiche conseguenze sul piano umanitario, nell’indifferenza della comunità internazionale, attratta da altri drammi, più vicini e più impattanti per gli equilibri internazionali. Essa ha inoltre comportato un ulteriore indebolimento del quadro economico-sociale in Arabia saudita se non altro per l’altissimo costo in termini finanziari della guerra nella realtà finitima, valutato, secondo alcune stime, intorno ai $6 miliardi al mese.

I mutamenti intervenuti nel mercato globale dei beni energetici e i seguiti di un conflitto, frutto di decisioni poco meditate, hanno provocato un taglio vistoso dei sussidi e delle facilitazioni elargiti alla popolazione; la finalità di simili misure era di arginare gli effetti generati da un deficit di bilancio, progressivamente aggravatosi, in presenza di una disoccupazione in aumento, particolarmente a livello giovanile, nonché di una riduzione vistosa delle enormi riserve valutarie, aggirantisi fino ai mutamenti intervenuti sui $700 miliardi.

Da qui è scaturita l’esigenza improrogabile di diversificare l’economia saudita, allentando la dipendenza dalla vendita dei prodotti primari, petrolio e beni affini, ed incentivando fonti alternative di reddito attraverso la promozione dei cosiddetti “non-oil sectors”, seguendo in tale nuovo percorso quanto già posto in essere da altri Paesi del Golfo, in primis gli Emirati arabi uniti e Qatar. Prospettiva stimolante, volta a modernizzare l’assetto economico-sociale, ma che potrebbe comportare per il Regno non improbabili ostacoli, per converso pressoché inesistenti nelle altre realtà del Golfo, dove i pericoli sono di altra natura rispetto a quanto riscontrabile nella patria del Profeta.

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In questo quadro nasce la strategia della “Vision 2030”, così definita perché, usando le parole del suo creatore, Mohammed bin Salman, “ogni successo nella vita deve poggiare su una visione”.

Il progetto ha. in effetti, una portata molto incisiva dato che, partendo dall’assunto di una revisione dei cardini fondamentali alla base del sistema economico saudita, contiene linee guida che prevedono lo sviluppo, oltre che del comparto industriale, dei servizi (banche, finanza, ecc.), e di altri settori nevralgici della società civile (sanità, istruzione, infrastrutture sociali, turismo, tempo libero ed altri), con la chiara finalità di promuovere non solo il potenziamento delle attività non legate al petrolio (in primis le energie rinnovabili ed il comparto manifatturiero, diversificando in tal modo l’export del Paese), ma altresì di introdurre positivi ed incisivi mutamenti al livello della base sociale.

Da questi nuovi canali Riyadh conterebbe di ricavare in termini di reddito più di $250 miliardi, ben al di sopra dei poco meno che $45 miliardi attuali, ottenendo in tal modo che il “non-oil sector” passi dal 16% al 50% del Prodotto interno lordo. Al termine di questo percorso l’Arabia saudita dovrebbe secondo gli auspici di Riyadh entrare a far parte del lotto delle quindici economie più importanti al mondo, con un balzo in avanti rispetto al ventesimo posto occupato nella relativa graduatoria.

Come si può notare il Paese si trova confrontato a scelte di portata gigantesca, tenendo a mente l’attuale assetto di potere sul quale poggiano delicati equilibri politici che fino ad ora hanno consentito al Regno di conseguire un’affidabile stabilità politica interna e di svolgere un ruolo preminente nell’universo arabo-islamico.

La situazione che si prefigura comporterebbe un contrasto più marcato tra il rispetto di un codice di condotta severo in armonia con i precetti del clero wahabita e le esigenze imposte dal mercato globale che richiedono un nuovo modo di lavorare e di operare. In questa nuova dimensione benefici e rendite non sarebbero più scontati mentre più larghi spazi sarebbero riservati a quegli ambienti, finora sottoposti a una condizione subalterna, soprattutto, ma non solo, i giovani e le donne, che occorrerà preparare e coinvolgere per garantire il successo del Paese nelle sfide future.

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E’ interessante notare come, in tal modo, si creerebbe un punto d’incontro tra le nuove priorità imposte dai vertici politici, determinate da nuove esigenze del quadro economico, e quanto emerge al livello della società civile, dove le aspirazioni di coloro, inebriati dall’espandersi della “Information technology”, traggono linfa anche da una richiesta di maggiore giustizia e più ampio coinvolgimento, fino a ora in larga misura disattesa, come confermato da dati recenti.

Il desiderio di questi ambienti è di conseguire una loro minore dipendenza sotto il profilo culturale e materiale, che ponga fine a costrizioni e inibizioni, quali ad esempio il divieto di guida per le donne, imposte da un’ortodossia wahabita, contestata in maniera sempre meno occulta. Tali condizionamenti appaiono in crescente discrasia con gli imperativi di nuovi apporti nel mondo del lavoro di forze, soprattutto locali, di cui la società saudita ha bisogno, per modernizzarsi e vincere le ineludibili sfide di sviluppo e crescita enunciate nei Programmi contenuti nella “Vision 2030”, delle quali si è fatto paladino il giovane figlio del sovrano.

Il peso politico e il carisma del “Deputy Crown Prince” giocheranno un ruolo decisivo nel successo di una strategia di rinnovamento che, senza alterare il carattere autoritario e illiberale del regime saudita, verrebbe in larga misura a incidere sulle fondamenta identitarie del Regno, basate sugli intoccabili dogmi del messaggio wahabita, e sulla sua stessa proiezione d’immagine nel mondo.

La posta in gioco per il divenire del più importante Paese del mondo arabo è altissima, perché in fondo si tratterebbe di enucleare nuove vie atte a favorire un’aggiornata più soddisfacente osmosi tra i valori della modernità, aborriti dai custodi della rigida dottrina imperante, e i valori propri del credo religioso, posti in discussione in un contesto generale che richiede nuove risposte per garantire la sostenibilità del sistema-Paese saudita. In ultima analisi si tratterebbe di tutelare al meglio gli interessi della Casa Saud, in un momento in cui è chiamata a far fronte sia alla minaccia espansiva iraniana, pronta a soffiare anche sull’irredentismo sciita del dieci per cento della popolazione saudita residente nelle province orientali del Paese, sia agli attacchi dell’estremismo sunnita che, ricordiamo, ha dei conti da regolare con la monarchia saudita, risalenti al tempo della nascita del Regno.

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E’ un momento cruciale per questo grande Paese. L’obiettivo è di riuscire a orientare (e controllare) il cammino verso la modernità, seguendo mutatis mutandis lo stesso sentiero positivamente percorso da altre realtà del Golfo. Un sentiero beninteso che continuerà a escludere il pluralismo politico e il liberalismo di stampo occidentale e che mirerà prioritariamente a rendere più performante il sistema economico, eliminando le aree di spreco, corruzione e parassitismo, promuovendo politiche volte a valorizzare il ruolo dell’imprenditoria privata, verso cui si cercherà di incanalare la forza-lavoro saudita, al momento pressoché latitante nel comparto privato, in larga misura occupato da stranieri. Financo gli “asset” finanziari del Paese, come quelli in possesso della più grande società petrolifera al mondo, l’Aramco, la cui consistenza ammonta a $2.5 mila miliardi, si apriranno gradualmente al capitale internazionale, in armonia con gli intendimenti del figlio del sovrano. Un inizio di profondo rinnovamento, anche sul piano culturale, si verrebbe conseguentemente a configurare in una sfida irta di ostacoli ma ineludibile. Un suo fallimento potrebbe comportare conseguenze molto gravi; secondo il parere di alcuni analisti, perfino imprevedibili.

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In Arabia saudita la nomenclatura religiosa ha sempre esercitato un monopolio assoluto in tema d’istruzione e di formazione dei giovani. Questo è sempre stato uno dei punti irrinunciabili sui quali i custodi della dottrina wahabita non hanno mai ammesso trasgressioni. Questo è stato uno dei punti fermi grazie ai quali la dinastia Saud si è avvalsa nei decenni passati dell’appoggio politico del potente clero locale, indispensabile per beneficiare di quei crismi di legittimità tuttora messi in discussione da non trascurabili ambienti sauditi: quegli stessi ambienti probabilmente da cui partono i canali di sostegno ai terroristi dell’ISIS. Retaggio di un passato non cancellato nella mens collettiva, dove certe ferite sono ancora aperte.

La strategia della “Vision 2030” viene dunque a urtare contro questa realtà nella misura in cui essa prevede un sistema di formazione dei giovani, uomini e donne, il più possibile allineato con le esigenze di un quadro economico più competitivo dove alle donne sarebbe riservato un ruolo tutt’altro che secondario nel mantenimento di un dignitoso standard di vita dei cittadini, a fronte di una ricchezza meno scontata e più ardua da conseguire. A tal proposito occorre ricordare che, seppure in un quadro generale tuttora contraddistinto da una mentalità atavicamente arcaica, donne saudite hanno già avuto modo di affermarsi in branche qualificanti della scienza e della cultura.

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Si tratterà di vedere che forme assumeranno le resistenze a processi di rinnovamento che incideranno sul modo di vivere di un Paese additato tuttora da molti ambienti internazionali come un luogo ottenebrato da un oscurantismo senza via d’uscita.

Ebbene così non è o perlomeno lo è in misura minore. Una “quiet revolution” (rivoluzione tranquilla) sembra aver preso irreversibilmente inizio nella patria del Profeta e il percorso sembra ben delineato.

Le incognite non mancano e le difficoltà che si profilano potrebbero rivelarsi anche insormontabili. L’attuale sovrano Salman bin Abdulaziz al Saud è molto anziano e di salute cagionevole. I margini di manovra e di potere conferiti al suo ambizioso figlio sono, da qualche tempo, fonte di celati risentimenti e rancori in seno alla stessa famiglia reale al punto che taluni si chiedono cosa potrebbe accadere quando Salman non ci sarà più.

Tutto questo deve essere tenuto in considerazione trattando del futuro prossimo del Regno. Ma se questo è vero, è anche vero che i tremori che vengono dal basso, dagli strati più vulnerabili della società civile, potenziale facile preda del messaggio jihadista dell’ISIS e di al-Qaeda, dai giovani, dalle donne, da un’emergente classe imprenditoriale contagiata dal modo di vivere occidentale, per una palingenesi del Paese in linea con la rivoluzione tecnologica, appare inarrestabile. Ove essa fosse ignorata o, peggio ancora, repressa, potrebbe avere pericolose conseguenze sulla stabilità di un’entità che svolge un ruolo importantissimo in una regione sconvolta da eventi che traggono principalmente origine da un passato fatto d’ingerenze esterne che hanno in larga misura ignorato e calpestato realtà complesse, ricche di cultura e di storia.

In definitiva l’Arabia saudita continuerà a essere nel futuro prevedibile una monarchia assoluta, ma ciò non ci induce a smentire che correnti autenticamente innovatrici pervadono in questo momento la realtà di quel grande Paese, il cui corso è sospinto da mutamenti obiettivi. E di ciò ha preso coscienza la Casa regnante, consapevole del fatto che è nel suo interesse rispondere in maniera appropriata a richieste di cambiamento che hanno il merito di essere in armonia con i tempi. Teniamo presente che questo Paese mantiene molteplici canali di contatto con il mondo esterno, in misura superiore al suo implacabile nemico, la Repubblica islamica d’Iran, che continua a patire, seppur in misura minore grazie al “nuclear deal” del luglio 2015, gli effetti di trent’anni di ghettizzazione politica, economica e culturale.

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Concluderei questa esposizione citando quanto sottolineato da Michal Yaari, studioso della realtà saudita presso l’Università di Tel Aviv. A suo avviso l’Occidente farebbe bene a tenere nel debito conto quel che sta maturando nella penisola arabica, nella misura in cui di quel che accade e continuerà a prodursi in un’entità cerniera del mondo arabo nessun conto sarà reso a Paesi occidentali le cui ripetute interferenze in quell’universo, aggiungiamo noi, hanno in larga misura prodotto i devastanti risultati di cui siamo purtroppo quotidiani osservatori.

La “quiet revolution” procederà secondo i suoi ritmi e secondo una propria filosofia politica che, a parere di Michal Yaari, difficilmente saranno compresi in Occidente. Ma i tempi sono cambiati e i condizionamenti si stanno rivelando di sempre più problematica incidenza (siano essi di carattere politico, militare o culturale).

Forse nel deserto arabico una nuova via verso una crescita ed uno sviluppo che rispondano in maggior misura a esigenze derivanti dal contesto locale e meno imposte dall’esterno si sta schiudendo. Nuovi sentieri, nuove speranze.