Libano: un Paese profondamente diviso

15 maggio 2018

 

            Premesse.

Nel momento in cui il mondo è preso da un senso di comprensibile inquietudine, per le conseguenze sul piano regionale ed anche mondiale che potrebbero derivare, provocato dall’irresponsabile decisione del Presidente Trump di uscire dall’accordo nucleare del 2015 stipulato con la Repubblica islamica d’Iran dall’ex-Presidente Obama unitamente agli altri quattro membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U. più la Germania e l’Unione Europea, riterrei utile richiamare l’attenzione su una consultazione elettorale svoltasi, dopo diversi rinvii, il 6 maggio scorso in Libano, la prima dal 2009; evento degno di considerazione, alla luce del rilievo del Paese in ambito regionale e le ramificazioni con la devastata area di appartenenza.

A titolo di premessa occorre segnalare che il Libano, considerato fino all’inizio della rovinosa guerra civile del 1975 la Svizzera del Medio Oriente, è un caleidoscopio, non solo etnico, ma anche religioso nella tormentata regione. Ben diciotto culti vi hanno luogo in un clima di tolleranza che contrasta con le tensioni, a carattere settario, covanti tra gli adepti delle due principali branche, sunnita e sciita, dell’Islam. Il perché di tale apparente paradosso risiede principalmente nel contrasto insanabile non solo religioso ma anche strategico e politico, esistente tra l’Iran, potenza sciita, e l’Arabia saudita, potenza sunnita. Dietro lo scudo delle diverse fedi vi è un’inconciliabile contrapposizione a livello strategico, politico ed economico, aggravatasi all’indomani della scomparsa del re Abdullah bin Abdul Aziz al Saud nel gennaio 2015 ed anche in conseguenza dell’attuale aggressiva politica USA in Medio Oriente, in essere da più di un anno.

Il Libano patisce gli effetti di tale situazione, al pari di altri Paesi della regione, in primis Iraq, Siria e Yemen, situazione resa ancor più gravosa dalla contiguità territoriale con Israele con il quale le occasioni di scontro non sono mancate negli ultimi decenni. L’ultima risale al 2006, durata più di un mese, svoltasi nello spazio compreso tra il sud del Libano e il nord dello Stato ebraico. Il carattere cruento di quella guerra indusse le Nazioni Unite a rafforzare ed estendere il ruolo dell’UNIFIL (United Nations Interim Force in Lebanon), stazionata dal 1978 nell’area di frontiera con Israele, cui furono assegnati altresì compiti di monitoraggio delle tensioni e funzioni umanitarie.

Al riguardo vi è da rilevare che la comunità sciita in Libano popola per l’appunto il sud del Paese, in prossimità quindi della frontiera israeliana. Ciò spiegherebbe in larga parte come questa circostanza abbia favorito l’emergenza di una formazione quale gli Hezbollah (“Partito di Dio”), andatasi progressivamente rafforzandosi, politicamente e militarmente. L’implacabile contrapposizione con l’odiato vicino sionista ha favorito il carattere militante dell’organizzazione che ha potuto avvalersi, oltre ché dello scontato supporto materiale iraniano, anche degli apporti di altri Paesi arabi uniti nel viscerale livore contro Israele.

La guerra del 2006 ha dato conferma del peso militare degli Hezbollah, rivelatisi in grado di tenere in scacco il potente nemico nel corso di un conflitto che non ha sortito mutamenti di rilievo nonostante il pesante tributo di sangue versato da entrambe le parti. Da quella guerra devastante la formazione sciita ha acquisito una capacità di deterrenza ragguardevole, considerando l’arsenale militare di cui ora dispone in grado di infliggere colpi durissimi ad Israele nel caso, tutt’altro che improbabile, alla luce dell’involuzione del quadro regionale ed internazionale, di un nuovo conflitto con l’entità sionista.

L’intervento militare degli Hezbollah nella guerra civile siriana a sostegno del regime di Baschar al Assad ha inoltre ulteriormente consolidato e rafforzato l’organizzazione diretta dal 1992 dal carismatico Hassan Nasrallah, una delle figure di assoluto rilievo nel campo della Resistenza contro la politica egemonica israeliana.

 

Responso elettorale.

 

 

Entrando nel merito delle elezioni del 6 maggio us, un elemento emerge con impattante evidenza. Intendiamo riferirci al discredito presso la società civile di cui patisce la classe dirigente libanese dove malgoverno, corruzione e uno scontro politico fondato sull’interesse clanico, aggravati dai pesanti condizionamenti esterni che alimentano le divisioni settarie e il clima di tensione, incidono negativamente sullo sviluppo ed il progresso della società libanese. Basti pensare che il Libano è rimasto senza Presidente per più di due anni (maggio 2014 – ottobre 2016) a causa di questi debilitanti fattori mentre, esempio di come il rispetto delle regole della democrazia venga concepito in quel Paese, il Parlamento ha arbitrariamente rinnovato il mandato dei suoi membri per ben due volte prescindendo in toto dalla volontà dei propri elettori.

Per comprendere la deleteria peculiarità del contesto libanese occorre ricordare quello che ha dovuto subire il Primo Ministro Saad Hariri, figlio di Rafiq Hariri, assassinato nel 2005 probabilmente da agenti siriani. Saad Hariri, Capo del Governo dal dicembre 2016 e leader indiscusso della comunità sunnita in Libano, è stato addirittura richiamato nel novembre 2017 in Arabia Saudita, in una sorta di atto d’imperio e successivamente si è visto costretto dai suoi mentori sauditi ad annunciare alla televisione del Regno le proprie dimissioni, adducendo come ragione “l’impossibilità di poter dirigere il mio Paese a causa delle pressioni e dei condizionamenti degli Hezbollah”! La sconcertante e umiliante vicenda ha avuto “un lieto seguito” grazie all’intervento determinante del Presidente francese Macron, iperattivo sulla scena internazionale, che ha consentito a Hariri di rientrare in patria dopo un doveroso scalo a Parigi. Il paradossale episodio, che fa capire a quale livello di abuso e sistematica violazione della prassi internazionale si è giunti in Medio Oriente, effetto anche dei deleteri effetti della leadership di Donald Trump, si è poi conclusa con la revoca delle dimissioni, annunciata dal bistrattato Primo Ministro al momento del suo ritorno a Beirut, reintegrato nelle sue funzioni ma indubbiamente indebolito nella sua credibilità politica.

Il Paese vive in un clima avvilente, terreno di scontro tra forze legate agli interessi di Potenze esterne regionali implacabilmente rivali. Il contesto interno registra comunque una decisa volontà di cambiamento, evidenziatasi in modo eclatante nel 2015 con le imponenti manifestazioni popolari generate dall’indifferenza della classe dirigente verso i problemi reali di un Paese dall’economia in crisi permanente e dipendente dall’aiuto internazionale, dove alto è il livello della disoccupazione, particolarmente giovanile. La corruzione e il malgoverno della nomenclatura politica sono di ostacolo al miglioramento di un quadro complessivo tanto deprimente quanto vulnerabile a fronte dell’inferno che si dispiega alle sue frontiere.

Questa tutt’altro che incoraggiante situazione ha inevitabilmente avuto il suo riflesso sull’andamento dello scrutinio elettorale del 6 maggio scorso. Il livello di partecipazione degli elettori è vistosamente calato rispetto alla precedente consultazione del 2009, passando dal 54% di allora al 49% di ora. Il distacco tra classe politica e società civile continua ad esacerbarsi, svilendo la portata di momenti importanti per la democrazia libanese. Questo a nostro modo di vedere è l’elemento maggiormente di rilievo che occorre tenere presente prima di passare all’esame di una consultazione la cui importanza è legata al fatto che essa abbia potuto aver luogo, dopo rinvii e ostacoli ripetutamente frapposti.

Il vincitore dello scrutinio risulta indubbiamente essere la formazione pro-iraniana degli Hezbollah che, unitamente allo schieramento alleato sciita del Movimento Amal, presieduto dallo speaker del Parlamento, Nabih Berri, si è aggiudicata poco meno di un terzo dei 128  seggi disponibili in Parlamento. Vi è da rilevare in proposito che, in base ad una prassi concordata tra le tre principali correnti religiose in Libano, sciiti, sunniti e cristiani, vige un accordo sulla ripartizione delle funzioni ai vertici istituzionali: in ossequio a questa prassi il Capo dello Stato dev’essere cristiano mentre la funzione di Primo Ministro spetta a un sunnita e quella di presidente del Parlamento ad uno sciita.

Il successo dello schieramento sciita è ragguardevole soprattutto per due ordini di considerazioni: la prima attiene alla costatazione che più del 90% dei libanesi di fede sciita ha dato le proprie preferenze agli Hezbollah e al movimento Amal,  la seconda concerne il fatto che la politica di ghettizzazione nei confronti delle suddette due formazioni, portata avanti dagli Stati Uniti e dall’Arabia saudita, è clamorosamente fallita se si pensa che hanno beneficiato del sostegno anche di personalità sunnite indipendenti e di diversa affiliazione. Lo schieramento militante diretto da Nasrallah, quali che saranno gli sviluppi successivi alle elezioni, costituisce ormai una forza assolutamente imprescindibile nelle future dinamiche politiche libanesi.

Diverso appare il discorso riguardante la prima formazione cristiana del “Free Patriotic Movement”, cui appartiene il Presidente Michel Aoun, che ha registrato un vistoso calo dei consensi, scesi dai 36 seggi del 2009 agli attuali 20. La ragione principale di tale flessione è probabilmente dovuta alle scelte di Michel Aoun, alleato degli Hezbollah, evidentemente non condivise da larghi segmenti della comunità cristiana. Resta il fatto che lo schieramento di alleanza tra gli Hezbollah, Amal ed il FPM ha raccolto una messe di voti per più della metà dei seggi del Parlamento.

Le ragioni addotte della sconfitta di Michel Aoun sarebbero convalidate dall’andamento elettorale, per converso alquanto favorevole, registrato dalla formazione di destra cristiana, a vocazione nazionalista, “Lebanese Forces”, presieduta da Samir Geagea, controverso personaggio, accusato dai suoi detrattori di essere un “criminale di guerra”, detenuto per ben undici anni (1994-2005) a causa della sua feroce ostilità alle interferenze siriane in Libano, prodottesi  dopo  la guerra civile, durata quindici anni (1975-1990), e dei presunti coinvolgimenti nelle devastanti vicende avvenute nel medesimo periodo. L’eccidio perpetrato dall’estrema destra cristiana con la complicità israeliana nel settembre 1982 nei campi profughi di Sabra e Shatila costituisce l’episodio più efferato.

Le “Forze Libanesi”, sostenute dagli Stati Uniti e i loro alleati sauditi, hanno in effetti raddoppiato i propri consensi rispetto allo scrutinio del 2009, raggiungendo la soglia dei 15 seggi che li pone al centro dello scacchiere politico, come quarto partito in termini di suffragi ricevuti, in grado di fungere da “kingmaker” nella conformazione futura dell’assetto di potere in Libano.

La considerevole perdita di consensi registrata dal poco carismatico ma importante rappresentante della comunità sunnita libanese Saad Hariri, ha costituito un significativo scacco per gli interessi sauditi nel Paese. La formazione capeggiata da Hariri, “Future Movement”, ha infatti visto i propri consensi scendere dai 34 seggi del 2009 agli attuali 22. La credibilità politica del personaggio ha ricevuto un ulteriore grave colpo, dopo quello subito a causa del fallito atto di forza, descritto più sopra, perpetrato contro di lui dall’irresponsabile principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, che non poteva non suscitare un’onda di risentimento e riprovazione nell’opinione pubblica libanese.

Il risultato fallimentare per Hariri dello scorso 6 maggio figura come conferma del fatto che egli non può più essere considerato come l’indiscusso leader della comunità sunnita nel Paese, anche se tutto lascerebbe credere che le sue probabilità di essere riconfermato nella carica di Primo Ministro appaiano nonostante le traversie subite tutt’altro che trascurabili. I negoziati per la formazione del nuovo governo saranno molto lunghi e tortuosi e dovranno fare i conti con gli eventi che si produrranno alle frontiere del Libano (Siria e Israele), e con le pressioni che inevitabilmente si manifesteranno da parte delle Potenze regionali.

Il responso delle urne non ha lasciato spazio alla pletora di candidati indipendenti, più di settanta, in buon numero donne, che, sospinti dall’onda popolare e dall’alto numero di giovani partecipanti al voto (circa 800.000), animati dall’intento di rinnovare e democratizzare un sistema politico corrotto e marcato da una forte matrice settaria, ha preso parte per la prima volta ad una consultazione elettorale.

Lo scopo di tale sfida, in gran parte fallita ma per il solo fatto di essersi materializzata da considerare un successo, era anche quello di portare avanti una battaglia per i diritti delle donne, in una realtà dominata dagli uomini, ed anche di coloro facenti parte della composita galassia, vilipesa e ghettizzata, dei LGBT (lesbiche-gay-bisessuali-transessuali).

Da qui emerge il carattere complesso della consultazione libanese che, se ha riconfermato le ataviche chiusure e i biasimevoli tratti paternalistici del passato, fonte di arretratezza politica e sottosviluppo culturale, ha nondimeno permesso di accendere un fuoco di speranza per quelle nuove frange della società libanese, giovani, donne e intellettuali, che per la prima volta sono riusciti a far sentire la loro voce e la loro protesta in opposizione un sistema ben scarsamente rappresentativo.

Un solo candidato indipendente varcherà la soglia del Parlamento di Beirut al di fuori degli schieramenti tradizionali e contro le oscure reti di raccolta del consenso che condizionano così pesantemente lo scenario politico libanese. Si tratta di una donna, la giornalista e presentatrice della televisione Paula Yacoubian, la sola in grado di forzare il chiavistello degli apparati tradizionali e degli allineamenti su base settaria. Altri hanno mancato l’obiettivo di poco, proponendosi di contestare il risultato in sede giudiziaria, e ciò suona conferma che si è solo all’inizio di una lunga ma irreversibile battaglia. Ed è quel che conta alla fin fine.

L’aspirazione di un popolo a una dimensione nuova nella quale i reali interessi dei cittadini siano finalmente presi in conto acquista da questo momento una connotazione politica in Libano, preceduta e preparata dalle imponenti manifestazioni popolari del 2015.

Certo la strada si rivelerà lunga e contorta, resa vieppiù problematica dalla preoccupante situazione esistente nella regione dove soffiano venti di guerra, anche se, come si vedrà in altre occasioni, il Libano non è l’unico Paese dell’area dove le rivendicazioni laiche, trascendenti le deleterie parole d’ordine settarie, si manifestano da tempo con forte determinazione.

Un altro segnale interessante è dato dalla inattesa mobilità rilevatasi nell’elettorato cristiano ed anche sunnita dove segmenti non trascurabili di cittadini non hanno esitato a far confluire i loro consensi verso preferenze diverse dalle loro affiliazioni religiose, verso candidati indipendenti o addirittura verso personalità di fede sciita. Meno marcato è apparso questo fenomeno presso l’elettorato sciita che, come già segnalato, ha preferito votare nella sua grande maggioranza a favore della propria rappresentanza politica, probabilmente spinto a ciò da episodi umilianti per l’entità libanese, come quello che ha visto coinvolto il Primo Ministro di un Paese sovrano, Saad Hariri, o dalla convinzione che, di fronte all’arroganza bellicista israeliana e al minaccioso unilateralismo americano, solo riconfermando la fiducia a una formazione potente come gli Hezbollah, il Libano sarebbe in grado di difendersi e preservare la propria dignità.

 

Conclusioni.

 

 

In ogni caso il risultato elettorale, oltre a riconfermare il carattere paternalistico del sistema politico del Paese, afflitto dai mali cronici della corruzione e del malaffare, ha altresì evidenziato il rilevante livello di polarizzazione creatosi tra i vari schieramenti, manifestatosi con i successi elettorali degli Hezbollah e della destra cristiana dei “Lebanese Forces”. E il quadro devastante prevalente nella regione e l’insensata politica USA nell’area non appaiono certo propizianti per un superamento delle sopra descritte contrapposizioni.

Molto probabilmente la reazione dell’Occidente ai risultati dello scrutinio non sarà favorevole, considerando il peso politico acquisito dagli Hezbollah filoiraniani, considerati dagli Stati Uniti e dall’Europa, oltreché dall’autocrazia saudita, a causa soprattutto della loro feroce ostilità ad Israele, “formazione terrorista”.

Pur tuttavia è probabile che Washington continuerà a fornire aiuto e sostegno alle Forze armate libanesi, viste dagli americani come il solo legittimo strumento di difesa del Paese. Secondo quanto appreso l’aiuto militare USA al Libano si è aggirato dal 2006, anno dell’ultima guerra con il vicino sionista, a tutt’oggi, intorno ai $1.5 miliardi. Per gli interessi americani questo apparirebbe come una mossa sensata, puntellando sul piano militare ed anche politico quelle forze ostili alla preponderanza degli Hezbollah.

  Per il resto è utile sottolineare come si sia ormai in presenza di un triangolare sistema d’alleanza molto pericoloso per la pace e la stabilità della regione, composto da USA, Arabia saudita ed Israele. Tale sistema punta a un’esasperazione delle tensioni nel perseguimento di una logica di dominio. Esso è privo di una qualsiasi visione che prefiguri un assetto sostenibile in Medio Oriente; né potrebbe essere altrimenti dato che chi vuole preservare il dominio e si rifiuta di tener conto di esigenze di mutamento emananti dal profondo delle comunità interessate non può concepire soluzioni politicamente sostenibili.

Tutto questo inevitabilmente rafforzerà l’idra terrorista e il militantismo jihadista. Di questo terrificante aspetto i membri della nuova triade preferiscono non tener conto; al contrario il fatto che la politica di dominio porta inevitabilmente a sbocchi conflittuali conforta la loro volontà di perseguire quel delirante disegno, dato che soltanto in un contesto caratterizzato dallo scontro la logica della dominazione può affermarsi in modo appagante.

Questa è la realtà con la quale quel movimento volto al rinnovamento, del quale abbiamo sopra parlato e di cui le recenti elezioni in Libano hanno fornito chiara evidenza, dovrà misurarsi, forte della consapevolezza di essere e di operare nella dinamica dettata da quelle che il grande storico francese Pierre Renouvin definiva “le forze profonde”. La vera arma vincente dello sviluppo e del progresso.

 

Angelo Travaglini, ex diplomatico. Membro del Comitato Scientifico del CIVG